martedì 4 dicembre 2012

L'AVVENTO DEI LIBRI. GIORNO 4


Dorothy Kunhardt, Apri la scatola!,
trad. di Elena Fantasia, Orecchio acerbo, Roma, 2012
© tutti i diritti riservati
Dorothy Kunhardt (1901 - 1979 Massachusetts), è una giocoliera delle parole da ottant’anni sul filo del successo. Ha segnato l'infanzia di gran parte dei bambini americani. I suoi libri, a partire dagli anni Trenta, sono stati letti da intere generazioni di piccoli. Donna intraprendente, curiosa della vita e del mondo dell'infanzia, Dot si circondò sempre di bambini. Fondò una scuola ispirata ai principi della pedagogia attiva e, vista la sua passione per il disegno, scrisse e illustrò per loro moltissime storie. Now open the box! è il suo secondo libro del 1934. Nel 1948 il titolo fu ripubblicato negli Stati Uniti con le illustrazioni di J. P. Miller. Invece i disegni dell'edizione scelta dalla casa editrice Orecchio acerbo sono quelli dell’autrice. Dot è anche la mamma di Pat the bunny, il picture book che realizzò nel 1940, vincitore di numerosi premi, e che da allora è un perenne best seller negli Stati Uniti.  Pat the bunny è il libro della letteratura americana per bambini più venduto di tutti i tempi e il secondo venduto in America, battuto solo da un altro coniglio, quello di Beatrix Potter.

James Joyce/Casey Sorrow, I gatti di Copenhagen,
traduzione di Anna Sarfatti,
Giunti Editore, Firenze, 2012
© tutti i diritti riservati
James Joyce (Dublino, 1882 - Zurigo, 1941) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese. È impossibile, e non sarò io certo a cimentarmi in questa impresa, presentare uno dei più grandi protagonisti della letteratura di tutti i tempi in così poche righe. Il suo "Ritratto d'artista" sarà qui limitato alla presentazione di The Cats of Copenhagen il racconto  scritto nel 1936 e contenuto in una lettera che Joyce scrisse al nipote. È il secondo racconto per bambini, diciamo così, finora noto di James Joyce dopo The Cat and the Devil. Il 1° gennaio di quest'anno sono scaduti i diritti sull'opera del romanziere irlandese e a febbraio una piccola casa editrice di Dublino, la Ithys Press, lo ha pubblicato per la prima volta e, a seguire, in Italia la casa editrice Giunti

Leggevo in questi giorni, mentre cercavo di approfondire la conoscenza di Dorothy Kunhardt, dicevo leggevo un'intervista della figlia rilasciata in occasione del settantesimo anniversario di Pat the Bunny, che Dot era una madre del tutto assorta nel suo lavoro e che nel suo ricordo non c'era momento della sua vita che non fosse scandito dal gettare un segno su un foglio, provare una nuova traccia di colore, ritagliare una carta o dallo scrivere l'appunto di un pensiero o di una frase qua e là e di come Dot fosse dolcemente e comprensibilmente estranea alle abitudini e ai modi della vita di tutti i giorni. 

E poi avevo tra le mani questo racconto di James Joyce, lo scrittore, chapeau, che teorizzò che "l'opera d'arte nasce dall'esigenza di interpretare la propria vita e la propria storia". Lo scrittore, chapeau, che visse la vita per scriverla. 

Ora, beninteso, non sto cercando relazioni necessarie e tantomeno forzate tra Dorothy Kunhardt e la sua opera e James Joyce, solo mi chiedevo e ribadivo la necessità al contempo, alla luce, o all'ombra non so dirvi, di questo che è prima un pensiero che una considerazione, e del fatto che i Apri la scatola! I Gatti di Copenhagen sono coetanei a noi tanto lontani ma di nuovo vicini grazie al dono che ci hanno fatto gli editori Orecchio acerbo Giunti, quanto della vita di un autore della sua visione del suo essere nel e leggere il mondo si nasconde dietro i racconti e le figure dell'infanzia spesso considerati racchiusi tra le sole pagine di copertina. Partendo dall'evidente fatto che non farei questo lavoro se non pensassi il contrario, credo - e rischio per sempre pericolosa proprietà transitiva - che chi si accinge a porgere libri di letteratura per l'infanzia debba, insomma sarebbe bello, che si interrogasse e si divertisse a praticare un po' di speologia all'interno di quelle pagine, forse l'esercizio non cambiarebbe l'apparenza delle cose  ma di sicuro la sostanza del gesto che precede la costruzione di un pensiero duraturo nel tempo sì.

“Questa è soltanto la sua scatola. La pecora che volevi sta dentro.”
Fui molto sorpreso di vedere il viso del mio piccolo giudice illuminarsi.
“Questo è proprio quello che volevo.”
E fu così che feci la conoscenza del piccolo principe.

Questo è ciò che scrisse Antoine de Saint-Exupéry nel 1943 nel suo Il Piccolo Principe (Bompiani, 2000), e questa è la frase intelligentemente scelta, come sempre, da Paolo Cesari per presentare il libro di Dorothy Kunhardt per dire che quella scatola che propone l'autrice, nata circa un decennio prima di quella donata al Principe, contiene anche lei un piccolo grande segreto che, di lì a poco, invece lei sceglierà di mostrare agli adulti e i bambini che leggeranno il suo libro. E per farlo si servirà del mondo del circo, uno di mondi classici dell'immaginario, un luogo magico per gli occhi di ogni bambino.  

“Ecco: la tua pecora è lì dentro” dice l’aviatore al Piccolo Principe mostrando il disegno di una scatola.
“Venite tutti, avvicinatevi al mio tendone, ho qualcosa di emozionante da mostrarvi” dice l’uomo del circo alla folla indicando una piccola scatola.

Dorothy Kunhardt, Apri la scatola!,
trad. di Elena Fantasia, Orecchio acerbo, Roma, 2012
© tutti i diritti riservati

Ma cosa c'è nella minuscola scatola rossa dell'uomo del circo: una pecora, un bottone, un disegno? Nessuno può immaginare che contenga Piuì, il più più più infinitesimalmente piccolo cane del mondo.

Si è protagonisti del Circo, e quindi ci si può vivere, grazie all'abilità, alla particolarità o alle dimensioni. È quest'ultimo caso quello che interessa il piccolo Piuì perché non sa fare proprio niente, neanche un salto, una capriola o dare la zampa. Però tutti, appena lo vedono, non possono fare a meno di amarlo.

Lo ama il clown che cavalca l'asino a due teste

Dorothy Kunhardt, Apri la scatola!,
trad. di Elena Fantasia, Orecchio acerbo, Roma, 2012
© tutti i diritti riservati

... e l'elefante che sa strisciar sotto un altro elefante

Dorothy Kunhardt, Apri la scatola!,
trad. di Elena Fantasia, Orecchio acerbo, Roma, 2012
© tutti i diritti riservati

Lo ama il bambino forzuto che solleva un'automobile con una foca seduta sul sedile posteriore

Dorothy Kunhardt, Apri la scatola!,
trad. di Elena Fantasia, Orecchio acerbo, Roma, 2012
© tutti i diritti riservati

Tutti ma proprio tutti amano Piuì. Finché un triste giorno, a Piuì non succede una cosa che si rivelerà disastrosa: inizia a crescere, a crescere, a crescere finché non diventa un cane di dimensioni normali allora addio attrazione, il direttore del Circo decide così di cacciarlo.

Tutti piangono perché Piuì è costretto ad andarsene

Dorothy Kunhardt, Apri la scatola!,
trad. di Elena Fantasia, Orecchio acerbo, Roma, 2012
© tutti i diritti riservati

Ma Piuì non smette di fermarsi, e continua a crescere, a crescere, a CRESCERE... tanto che un bel giorno...

“Venite tutti, avvicinatevi al mio tendone, ho qualcosa di emozionante da mostrarvi”

Dorothy Kunhardt, Apri la scatola!,
trad. di Elena Fantasia, Orecchio acerbo, Roma, 2012
© tutti i diritti riservati

In quello che a prima vista può sembrare il solito gioco piccolo-grande-piccolo, Dorothy mette, già nel 1934, tutta la sua dirompente energia, sostenuta dalla forza esplosiva dei sui insoliti disegni colorati del suo amato rosso che qui incontra il giallo pieno, per raccontare una storia limpida, fuori da ogni moralismo, capace di mettersi in un dialogo senza filtri con i bambini, con le loro emozioni e paure, per prima quella di ogni cambiamento e con l'ansia che questo sempre si porta dietro.
Con questo insolito libro Dorothy li accompagna per mano sulla strada della consapevolezza della loro unicità e del diritto di essere amati sopra ogni cosa e lo fa con la sua consueta tenerezza e allegria così da riuscire a penetrare anche il grigiore delle menti più chiuse per dire che ogni contenuto è più importante dell'involucro, un pensiero che, in questi giorni di regali, acquisisce un significato in più.

Un delizioso regalo, accompagnato di una sottile ma vivace vis anarchica, è quello che James Joyce spedì il 5 settembre 1936 dalla Danimarca a suo nipote Stephen James Joyce (a lui è dedicata la poesia Ecce Puer) mentre questi si trovava a Villa del Roses, a Menthon-St-Bernard. The Cats of Copenhagen è infatti il racconto che Joyce accluse alla lettera inviata al nipote di quattro anni e mai pubblicato fino a quest'anno.

Nel marzo 2006, Han E. Jahnke donò generosamente un baule malconcio pieno di materiale eterogeneo alla fondazione James Joyce di Zurigo, diretta da Fritz Senn. Hans è il figliastro di George, figlio di James Joyce. Ha ereditato questi importanti bauli da sua madre Asta, seconda moglie di George. Tra i tanti fogli di grande interesse, vi sono le lettere inviate da Joyce a Helen Fleishman, prima moglie di George. Tra queste ce n'è una scritta appositamente per il piccolo Stephen, di quattro anni, che narra un racconto per bambini breve e divertente, I Gatti di Copenhagen
© Anastasia Herbert (Ithys Press), in "Breve Storia", op, cit., Giunti Editore, 2012.

Ahimé!
Non ti posso inviare un gatto di Copenhagen perché a Copenhagen non ci sono gatti.
© James Joyce, op. cit., Giunti Editore, 2012.


James Joyce/Casey Sorrow,
The Cats of Copenhagen,Ithys Press, Dublino,  2012

Il 10 agosto 1936, Joyce aveva inviato un'altra lettera al nipote contenente il racconto The Cat in the Devil e mentre gli raccontava le gesta del gatto di del diavolo di Beaugency (stava scrivendo da Villers-sur-Mer, nel Calvados), scrive sempre Anastasia Hebert questa volta nella Prefazione al libro,  "gli raccontò che qualche giorno prima gli aveva spedito "un gattino pieno di dolci", una specie di "gatto di Troia" per ingannare gli adulti. Un'altra magnifica idea presa da Omero!". È evidente che, oltre ad essere la vera passione dello scrittore vicini anche al suo Leopold Bloom, i gatti erano un argomento forte del legame tra i due.

James Joyce/Casey Sorrow, I gatti di Copenhagen,
traduzione di Anna Sarfatti,
Giunti Editore, Firenze, 2012
© tutti i diritti riservati

Se è vero che in Joyce la creazione può darsi solo come proiezione dell'esperienza del creatore, nelle parole di  Giorgio Melchiori (Einaudi, 1994), allora anche questo racconto ne è una testimonianza perché lo scrisse in un momento particolare di vita in cui le precarie condizioni economiche e un peso consistente di lavoro lo fecero fuggire da Parigi sulla via di Copenhagen. Joyce conosceva abbastanza il danese e gli piaceva dire che, in comune con gli altri abitanti di Dublino, fondata 1000 anni prima dai danesi, nelle sue vene scorreva il sangue dei progenitori.
A Copenhagen la vita gli si aprì d'innanzi, e il soggiorno fu un vero successo: iniziò il lavoro di un'edizione danese di Ulisse (non completata fino al 1949 e tradotta da Morgens Boisen), lavorò sulle bozze dell'edizione Bodley Head di Ulisse la prima edizione inglese stampata in Inghilterra e trovò ispirazioni per il Finnegans Wake (gli piacquero particolarmente le cassette postali e postini con la divisa rossa raccontati anche ne I Gatti di Copenhagen gli suggerirono Shaun, il postino del Finnegans). 

I Gatti di Copenhagen racconta molte cose, di come la letteratura non abbia, in fondo generi, di come un nonno unito a un nipote da un legame profondo possa raccontare una storia interessante anche sulla punta della penna più fine e complessa e di come conoscendo i grandi scrittori fin da piccoli poi possa venire la voglia di andarli a cercare, come vecchi amici, anche da grandi non sentendoli estranei.


Sul vetro è soffiata
la vita infantile;
il mondo che non era
viene a incarnarsi.

James Joyce, Ecce Puer, trad. di Edoardo Sanguineti, 
in Poesie di James Joyce, Mondadori, 1961 
© tutti i diritti riservati


James Joyce/Casey Sorrow, I gatti di Copenhagen,
traduzione di Anna Sarfatti,
Giunti Editore, Firenze, 2012
© tutti i diritti riservati 


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