lunedì 27 gennaio 2014

NEL GIORNO DELLA MEMORIA, RICORDANDO EDITA


Antonio G. Iturbe,
La biblioteca più piccola del mondo,
traduzione di  Stefania Maria Ciminelli
e Stefania Fantuzzi,
Rizzoli, Milano, 2014


Sessantanove anni fa, il 27 gennaio 1945 venivano abbattuti i cancelli di Auschwitz.
Sessantanove anni, penso mentre scrivo, sono una frazione di tempo infinitamente piccola nell'arco temporale che accoglie la storia dell'uomo.
In questa prospettiva, a vedere bene, siamo talmente vicini a quella data che molti di noi possono ancora parlarne dettagliatamente con i genitori, i nonni, i conoscenti, con i testimoni di quell'orrore e farsi carico così di quella memoria preziosa e tangibile che ha definito, prima di quella del Paese, la storia delle famiglie e delle comunità di appartenenza.

Dal 2001, primo anno in cui si è celebrato il "Giorno della memoria" in Italia, istituito dal Parlamento con la legge n. 211 del 20 luglio 2000, mi è successo diverse volte, ma quest'anno molto di più, di sentire persone che si e ci interrogano sull'opportunità o meno di mantenere questo momento annuale di riflessione condivisa su quella che è stata una delle più grandi tragedie che hanno sfregiato l'umanità; tragedia di cui ancora oggi è impossibile non sentirne la responsabilità anche da parte di chi non vi ha partecipato, o non era ancora nato, ma che dall'esperienza dell'Olocausto ha percepito il suo essere passibile di quella banalità che ha portato alla luce la vastità della ferocia di cui siamo capaci, tanto nell'azione quanto nell'inazione, nel clamore come nel silenzio, verità con cui non possiamo non fare i conti e confrontarci ogni giorno. 

Gli interrogativi che sorgono in occasione della celebrazione di una giornata che ricordi l'insanabile dolore frutto di quella ferocia non sono, come spesso potrebbe sembrare, tutti di natura meramente strumentale. 
Mi è capitato infatti di confrontarmi, in diverse circostanze e nel corso degli anni, con esponenti della comunità ebraica che dubitano dell'utilità, dell'efficacia e delle modalità insite in questa celebrazione.

È uscito in questi giorni il libro Contro il giorno della memoria dell'ebraista Elena Loewenthal (Add Editore) che raccoglie la sue riflessioni in merito alla preoccupazione che il "Giorno della memoria" sia purtroppo diventato una vuota esibizione retorica, un libro con cui è opportuno confrontarsi volendo cercare di ragionare in modo compiuto e profondo sull'argomento.

Oltre a questo, nel tempo, ho ascoltato le tante persone che mi è stato possibile incontrare, le loro considerazioni, i loro pensieri differenti che, seppur sofferti e profondi, sono sempre stati fonti di forti suggestioni, ma fino ad ora tutto questo non è  ancora riuscito a scalfire la mia convinzione, forse ancora più motivata dal lavoro che faccio che mi permette di incontrare i bambini e i ragazzi anche in questa occasione ormai da diversi anni, che sia fondamentale celebrare questo giorno.
Lo trovo ancora importante per moltissimi e ovvi motivi, ma soprattutto perché questa opportunità possa essere colta da tutti gli adulti che, insieme alla scuola, devono farsi carico della trasmissione della memoria e della rielaborazione costruttiva di quella colpa attraverso un insegnamento filosofico, morale e civile che di lì possa iniziare a ispirare i bambini e i ragazzi nel condurre la loro vita nella direzione di riappropriarsi di quel pezzo di storia che è prima di tutto nostra, non riguarda solo degli ebrei, e di gettare il seme del desiderio di conoscere le cose in prima persona, di cercare sempre e sopra ogni cosa la verità e di capire le cause per imparare a riconoscerne i semi dell'odio razziale sempre pronti a essere gettati su qualche terreno preparato a dovere per rendere veloce la loro crescita.

In un'ottica quindi di mancanza di possibilità di delega ad altri, il "Giorno delle memoria" diviene così anche una sorta di chiamata a questo impegno a cui la comunità degli uomini e delle donne deve saper rispondere con una proposta o con un resoconto, a patto che tutto non si esaurisca nella celebrazione, che divenga un'occasione per sentirsi in pace con la propria coscienza.

C'è una cosa che si impara dolorosamente andando a parlare nelle scuole di Shoah e Resistenza: il limite posto dall'importanza di arrivare nel momento giusto del programma scolastico, cioè quando i ragazzi sono stati messi a conoscenza delle vicende storiche.
In caso contrario, si può arrivare in una classe, anche delle medie o delle superiori, e pronunciare i nomi di Hitler e Mussolini a vuoto, snocciolare date collocate nel nulla, tentare di nominare la tragedia delle vittime e di pronunciare il numero di milioni di morti con la sensazione e il disagio di dire qualcosa di talmente grande da non trovare posto nei pensieri di chi ascolta, scoprire che le strade e le piazze dedicate delle nostre città non hanno ancora suggerito ai nostri bambini e ragazzi alcuna riflessione. E questo a soli, sessantanove anni di distanza, mi ripeto ancora.

Possiamo ancora permetterci questo? Dobbiamo davvero aspettare il momento esatto definito dal programma scolastico per poter parlare di queste e molte altre cose?
In questo senso il "Giorno della memoria" si trasforma nell'ariete che apre le porte a conoscenze, incontri e visioni che altrimenti rischierebbero di essere limitate dallo studio frettoloso delle sole righe scritte nei libri scolastici.

Quando mi trovo in queste situazioni, so che devo subito trovare un espediente per non perdere quei ragazzi, per non sprecare ciò che può offrirci l'incontro. Tento così di andare a ritroso, di ripercorrere le strade della mia memoria per trovare il bandolo di quel filo che mi ha permesso di iniziare a collegarla, a metterla in sintonia con quelle di tutti gli altri.

Arrivo così a un giorno di autunno del 1977, quando avevo otto anni, in cui dopo il reiterato racconto di mia sorella Carla, che di anni ne ha sette più di me, iniziai finalmente e piano piano a leggere Il diario di Anna Frank.
Da allora, non ho più smesso di leggere, di studiare, di cercare testimonianze sulla Shoah. Tutto è successo a partire dal racconto di quella bambina, dalle parole di Anna che, con la sua figura, ha fatto innamorare, come me, milioni di bambini e ragazzi fino a oggi.

Ecco di che cosa c'è bisogno, ecco che cosa dobbiamo trovare e proporre noi adulti ogni anno nel "Giorno della memoria", qualcosa di speciale capace di illuminare l'impegno alla conoscenza che poi deve essere profuso ogni giorno: figure che innamorino fin dall'infanzia, quelle nitidamente delineate dalla filosofa spagnola Maria Zambrano, capaci di trascinarci laddove da soli non avremmo mai immaginato di riuscire a spingerci.

Figure che con grazia si concedono a noi per essere raccolte, custodite e passate come testimone dall'uno all'altro, dal grande al piccolo; figure "parlanti" o raccontate nei libri, nei film, nell'arte, nella musica, catturate nelle fotografie, capaci di innalzarsi sopra la storia e le sue aberrazioni, tanto più quindi di precedere e andare oltre i programmi scolastici, la distrazione delle famiglie e della società civile, di divenire così luminose da poterle trovare sempre alte nel cielo, stelle pronte a guidarci in questa terra che troppo spesso ci sembra così desolata da meritare solo la nostra rassegnazione.

Il "Giorno della Memoria" diviene, secondo questa concezione, l'occasione per sfogliare questo albo di immagini, per ritrovare quelle che abbiamo amato e cercarne ogni volta di nuove da conoscere e proporre nei giorni che lo seguiranno.

Come quella di Edita Adlerova (il cui nome vero è Edita Polachova conosciuta come Dita Kraus), la protagonista di La biblioteca più piccola del mondo, il libro che ho scelto di proporvi quest'anno. 

Una figura luminosa è particolarmente significativa perché seppur nata all'interno di questa tragica storia è così forte e potente da travalicarla per condizione e per tempo.

Edita ha quattordici anni nel gennaio del 1944 e, insieme a suo padre e sua madre, è arrivata con il contingente del mese di dicembre dal ghetto di Terezin, un viaggio durato tre giorni stipati su un vagone merci, a Auschwitz-Birkenau.
Tutti e tre sono stati assegnati al settore B-II-b, il campo per famiglie ebree provenienti da Theresienstadt (come i tedeschi avevano rinominato la città di Terezin "generosamente" donata da Hitler agli ebrei) o Familienlager Theresienstadt.

Il campo per famiglie di Auschwitz è l'unico in cui vivono i bambini. Come uccelli rari in gabbia, i piccoli passano le loro giornate nel blocco 31, il paravento di normalità che i nazisti hanno preparato per gli ispettori della Croce Rossa Internazionale.


Edita


Antonio G. Iturbe, giornalista e scrittore spagnolo classe 1967, racconta nel libro di avere incontrato Edita per la prima volta tra le pagine di La biblioteca di notte, grazie a un accenno fatto dal Alberto Manguel:


«Finché rimase aperto, il blocco 31 ospitò fino a cinquecento bambini, oltre a molti altri prigionieri che venivano chiamati "assistenti". Nonostante la rigida sorveglianza e al contrario di quello che ci si sarebbe aspettati, nel blocco esisteva una biblioteca clandestina destinata ai bambini. Era minuscola, contava solo otto volumi tra cui La breve storia del mondo di H. G. Wells, un sussidiario scolastico russo e un libro di geometria analitica. [...] Alla fine di ogni giornata venivano affidati, insieme ad altre cose preziose come medicine e pezzetti di cibo, a una delle ragazze più grandi che aveva il compito di nasconderli ogni notte in un posto diverso». Alberto Manguel, La biblioteca di notte, Archinto Edizioni, Milano, 2007.


Nel blocco 31 del settore B-II-b di Auschwitz, una baracca che appare poco più di una stalla, I tedeschi avevano ordinato che i responsabili del blocco, tutti prigionieri ebrei, si limitassero a far giocare i piccoli, ma in realtà il capoblocco, Alfred Hirsch, un trentenne ebreo tedesco, ha organizzato una scuola clandestina con il contributo di molti volontari.
La piccola biblioteca si trova nascosta al suo interno. 


Il blocco 31 del settore B-II-b di Auschwitz
disegno di Dita Kraus


Tra gli otto volumi che la compongono - oltre ai già citati La breve storia del mondo di H.G. Wells, a quella che è in realtà una grammatica russa e al Trattato elementare di geometria - ci sono un vecchio atlante, Nuove strade della terapia di Sigmund Freud e due romanzi: Le vicende del bravo soldato Svejk di Jaroslaw Hasek e Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas, affidati alle cure di Edita perché li custodisca e li distribuisca agli insegnanti nel corso delle lezioni. Squadernati, strappati e malridotti, i libri sono arrivati al campo per vie clandestine e pericolose.


«Dita guardava i libri, ma soprattutto li accarezzava. Erano strappati, sottolineati, portavano i segni di tutte le mani in cui erano passati, avevano macchie rossicce di umidità, ad alcuni mancavano le pagine, ma erano un tesoro. La loro fragilità li rendeva ancora più preziosi. Avrebbe dovuto trattarli come vecchi sopravvissuti a una catastrofe, perché avevano un'importanza cruciale: senza quei libri avrebbero rischiato di perdere la saggezza raccolta in secoli di civilità. La geografia, che permetteva di scoprire com'è fatto il mondo; la letteratura, che fa vivere a chi legge decine di vite; il progresso scientifico portato dalla matematica; la storia, che ci ricorda da dove veniamo e può aiutarci a decidere la direzione da prendere; la grammatica, che permette di tessere i fili della comunicazione. Più che una bibliotecaria, quel giorno Dita diventò un'infermiera dei libri». La biblioteca più piccola del mondo, pp. 48/49.


Il campo per famiglie, in particolare il blocco 31 è molto caro a Josef Mengele, il «dottor morte» che, insieme a numerosi medici tedeschi, sui quei bambini può sperimentare in assoluta libertà le atrocità delle sue ricerche scientifiche.

Edita, pur se minacciata dalla pericolosa e continua osservazione di Mengele, è disposta a rischiare la vita per salvare il suo tesoro, l'unico che permette a quei bambini, insieme a lei, di fuggire dal dolore e dal plumbeo grigiore del campo di sterminio. 


Il blocco 31 del settore B-II-b di Auschwitz
disegno di Dita Kraus


«Dita lo guardò perplessa, ma le parole di Hirsch non ammettevano replica. Non era a capo di una baracca, era a capo di un esercito. Come il generale di un popolo che si solleva in armi contro l'esercito invasore sceglie un contadino e gli dice «Tu sari il colonnello», quel pomeriggio con la stessa solennità Hirsch scelse Dita in quella baracca, dicendole «Tu sarai la bibliotecaria».
E aggiunse: «È pericoloso. Molto pericoloso. Non è un gioco. Se le SS ti trovano con i libri, ti uccidono.» [...]
«Può contare su di me.»
«È un grande rischio.»
«Non mi importa.» [...]
«A me sembri una ragazza coraggiosa.»
«Ma sto tremando!», rispose sconsolata.
«Per questo sei coraggiosa. Le persone coraggiose non sono quelle che non hanno paura. Quelli sono temerari, ignorano il rischio e corrono pericoli senza sapere quali potrebbero essere le conseguenze. Chi non conosce il pericolo può far correre un rischio a chiunque abbia accanto. Non voglio gente così nella mi squadra. A me servono persone che tremano ma non cedono, persone  consapevoli di cosa stanno rischiando e che decidono lo stesso di rischiare».
Dita lo ascoltava e le sue gambe tremavano sempre di meno.
«Le persone coraggiose sono quelle in grado di vincere la propria paura. Tu lo sei. Come ti chiami?»
«Edita Adlerova, signor Hirsch.»
«Benvenuta al blocco 31, Edita. Che Dio ti benedica. E per favore, chiamami Fredy.» La biblioteca più piccola del mondo, pp. 42-43.


Edita coraggiosa lo è, il coraggio e una mente lucida che le permettono di non cedere mai sono tutto ciò che, strappatale l'infanzia da un colpo di follia, le è rimasto per attraversare il tunnel di terrore e disperazione di Auschwitz. Sarà coraggiosa per sé, per quei libri, per i bambini e gli assistenti compagni del blocco 31, per suo padre e per sua madre, per le amiche Margit, Helga e René. Lo sarà per difendere l'idea dell'esistenza di un essere umano migliore da proteggere e non sacrificare alla furia nazista, lo sarà per tutto le pagine del libro e poi per tutta il resto della sua vita.

Ieri, Moni Ovadia, nel corso di un'intervista in cui gli si chiedeva come raccontare la Shoah ai bambini, ha dato una risposta di un'intelligenza puntale e precisa:


«Bisogna raccontargliela per sottrazione. Si inizia chiedendo loro cosa succederebbe se un giorno, senza comprenderne il perché, non potessero più andare a scuola, a giocare con i compagni, a trovare i nonni, a correre nel parco; se al loro papà perdesse fosse improvvisamente tolto il lavoro e poi dovessero lasciare la casa, i loro libri, i loro giocattoli e, ancora,  la loro città... fino ad arrivare inesorabilmente a chiedergli che cosa sarebbe se un giorno qualcuno, lentamente ma sistematicamente, decidesse di toglierli quella cosa trasparente, impalpabile, ma che li definisce come essere umani, che è la dignità. I bambini possono arrivare a comprenderlo, capiscono molto di più di quanto immaginiamo noi adulti.».


Ecco, le figure che innamorano, come questa di Edita, sono imprescindibili per la formazione dei bambini e ragazzi,  e non meno per noi.
Sono quelle che ci aiutano a comprendere, che quando ci smarriamo ci indicano la via, che ci attendono pronte a soccorrerci con quella bussola che altro non è se non la difesa e la tutela della dignità dell'essere umano, in qualsiasi circostanza, prima e sopra ogni cosa.
Se non è dono perfetto questo, che può essere offerto ai bambini e ragazzi dal "Giorno della memoria", cos'altro lo è.


Dita Kraus
© Gustavo Monge


Edita (Dita) Kraus è nata a Praa il 12 luglio 1929, da una famiglia ebraica. È entrata nel ghetto di Terezin (Theresienstadt) nel 1942. Da bambina cantava le arie delle opere, disegnava e dipingeva e aveva preso lezioni di arte da Friedl Brandriss. Dopo Auschwitz nel dicembre 1943, fu spostata con la madre in  campo di lavoro ad Amburgo dove fu addetta alla rimozione dei detriti degli edifici crollati e in seguito lavorò in distillerie che si trovavano lungo il fiume Elba. Da lì fu poi inviata in un altro campo di lavoro forzato, Neugraben, poi in un altro campo ancora, Tiefstock, e, infine, Bergen Belsen. Dopo la liberazione di Bergen Belsen da parte dell'esercito inglese, fece ritorno a Praga dove, nel 1949 sposò Ota Kraus. Nello stesso anno, in seguito all'entrata a Praga dei sovietici, Dita e Ota, con il loro primo figlio, emigrarono in Israele.

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