venerdì 10 ottobre 2014

LA SCUOLA ANTISCOLASTICA DI PAOLO NORI


Paolo Nori,
Scuola elementare di scrittura per non frequentanti,
(con illustrazioni di YOCCI)
Corraini Edizioni, Mantova, 2014


Paolo Nori (Parma, 1963), scrittore e traduttore, dopo il diploma in ragioneria ha lavorato in Algeria, Iraq e Francia. Tornato in Italia ha conseguito nel 1995 la laurea in Lingua e Letteratura Russa presso l'Università di Parma, con una tesi sulla poesia di Velimir Chlebnikov. Ha quindi esercitato per un certo tempo l'attività di traduttore di manuali tecnici dal russo part time. Alla redazione de "Il semplice" conosce Ermanno Cavazzoni, Gianni Celati, Ugo Cornia, Daniele Benati, con i quali collabora per anni, cominciando a pubblicare i suoi scritti fortemente influenzati dalle avanguardie russe ed emiliane. È fondatore e redattore della rivista "L'Accalappiacani", edita da DeriveApprodi. Collabora con alcuni quotidiani tra cui "il manifesto", "Libero", "Il Foglio" e "Il Fatto Quotidiano". Col manifesto i rapporti si sono poi interrotti. Il 24 marzo 2013 è investito da una moto presso Casalecchio di Reno (dove risiede) e viene ricoverato in gravi condizioni all'Ospedale Maggiore di Bologna. Si è poi ripreso.

Queste sono le note biografiche, o forse autobiografiche, di Paolo Nori prese da Wikipedia dove, oltre agli ultimi titoli Tredici favole belle e una brutta, (con le illustrazioni di YOCCI, Rizzoli, 2012), La banda del formaggio (Marcos y Marcos, 2013), La Svizzera (Il Saggiatore, 2013), Mo mama (da chi vogliamo essere governati?) (Chiarelettere, 2013) e Si sente? Tre discorsi su Auschwitz (Marcos y Marcos, 2014), potete trovare l'elenco completo di tutti i suoi libri (per una nota bio-biblografica più ricca cliccate qui).  



Paolo Nori
(foto di Alfredo Anceschi)


Mentre sto scrivendo il post, sto ascoltando Paolo Nori, ospite di Fahrenheit in occasione dell'uscita di Siamo buoni se siamo buoni, per Marcos y Marcos (che verrà presentato a Bologna Martedì 14 ottobre alle ore 18.00 alla Libreria Ambasciatori), ma poi, Paolo Nori, parla anche di Mosca-Petuškì. Poema ferroviario di Venedikt Erofeev, ritenuto un libro mitologico della cultura russa, che ha tradotto per Quodlibet e anche oggi, come succede sempre quando lo leggo o lo ascolto, riesce a mostrarmi cose, a portarmi in luoghi letterari, che prima non conoscevo o che se anche li conoscevo già non li avevo mai visti sotto quella luce.


Paolo Nori,
Siamo buoni se siamo buoni,
Marcos y Marcos, Milano, 

9 ottobre 2014

Venedikt Erofeev,
Mosca-Petuškì. Poema ferroviario,
traduzione di Paolo Nori,
Quodlibet Compagnia Extra,
Macerata, settembre 2014

Ma il libro di cui ho scelto di parlarvi in questo post è Scuola elementare di scrittura emiliana per non frequentanti (con esercizi svolti e, aggiungo io, compiti per le vacanze), uscito in occasione del Festivaletteratura di Mantova.

Perché per non frequentanti? Perché la scuola elementare di scrittura emiliana esiste, e vive, ormai da dieci anni in Emilia, prima a Reggio Emilia poi a Bologna (dove lunedì 13 ottobre inizierà il nuovo corso da Modo Infoshop) ed è una scuola, spiega Paolo Nori in apertura del libro, «dove si insegna, in un certo senso, a scrivere male, cioè a provare a misurarsi con una lingua concreta, con la lingua che sentiamo parlare tutti i giorni intorno a noi e che, quando ci mettiamo a scrivere, sia portati a correggere e a nobilitare».

«L’italiano-italiano, l’italiano doc, quello dove si dice giuoco e non gioco, quello dove pésca e pèsca sono due cose diverse, quello dove si seguono tutte le regole dettate non dall’uso, ma dalle grammatiche, cioè quello dove si parla così non perché è così che si parla, ma perché è così che si dovrebbe parlare, lo parleranno, in Italia, due o tre mila persone, gli altri parlano in una lingua che risente del posto in cui viene parlata, e che differisce, spesso, dalla lingua che si parla nel paese a cinque chilometri di distanza, ma che resta, nella maggior parte dei casi, una lingua comprensibile a tutti e carica di un'espressività che con l’italiano-italiano è più difficile ottenere. Per quello la scuola si chiama emiliana, non perché si debba scrivere in emiliano (ci sono state anche scuole di scrittura emiliana all’estero, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Sardegna e in Canton Ticino, perfino) ma per sottolineare il fatto che a chi partecipa a questa scuola verrà chiesto di lavorare anche su una lingua concreta, regionale, grossolana, una lingua dove difficilmente chi parla dice cribbio o poffarbacco, e più facilmente dice vacco mondo o zio campanaro Paolo Nori, "Paratesto", in op. cit., Corraini Edizioni, 2014.


Paolo Nori,
Scuola elementare di scrittura per non frequentanti,
(con illustrazioni di YOCCI)
Corraini Edizioni, Mantova, 2014


Le riflessioni di Paolo Nori sull'uso delle parole, nella vita come in letteratura (e sulla letteratura stessa perché Scuola elementare di scrittura... è un libro che parla in modo intelligente, composito e inusuale proprio di letteratura), sono riflessioni che, pagina dopo pagina, si trasformano in un dialogo serrato e coinvolgente con il lettore il quale, senza rendersene conto e ancora prima degli esercizi pratici, ha già messo in moto mente e corpo per mettersi sulla scia di uno "che scrive libri" che, in questo testo come nei romanzi, sembra sentirsi perfettamente a sua agio più nel perdersi che nel trovarsi.

Una sorta, questa, di straniamento provocato da quella eccentrica, ma sempre vera, libertà linguistica che caratterizza come unica la sua opera e che diviene una lezione fondamentale per una scuola, come quella elementare di scrittura, il cui intento è di dare indicazioni su come si può scrivere un romanzo, «solo che se qualcuno mi chiedesse come si fa a scrivere un romanzo», scrive Nori, «io gli direi che non lo so». 
Lui, che in diciassette anni ne ha scritti ventuno.


Paolo Nori,
Scuola elementare di scrittura per non frequentanti,
(con illustrazioni di YOCCI)
Corraini Edizioni, Mantova, 2014


«[...] Cioè quel che fa Tolstoj, e che secondo, Šklovskij, se ho capito bene, dovrebbero fare tutti quelli che scrivono, è usare le parole sentendone il peso e il materiale di cui sono fatte, scrivere come se si prendesse in mano la penna per la prima volta, descrivere le cose come se non le si conoscesse, descriverle come se le si vedesse per la prima volta che è un po' la cosa che dice un poeta russo che si chiama  Mandel'štam, che ha imparato l'italiano per leggere Dante, e che ha scritto poi una "Conversazione su Dante" dove si chiede, tra le altre cose, quanti sandali ha consumato, Dante, per scrivere la Divina Commedia, e dove dice, tra le altre cose,  che l'italiano è «la più dadaista delle lingue romanze», e dove scrive, tra le altre cose, che «Dire "sole" significa compiere un lunghissimo viaggio, al quale siamo però a tal punto abituati che viaggiamo dormendo. La poesia - scrive  Mandel'štam- si distingue dal linguaggio automatico appunto perché a metà della parola ci riscuote e risveglia. La parola ci pare allora molto più lunga di quanto credessimo, sicché ci rammentiamo che parlare significa essere sempre in cammino». » Paolo Nori, in op. cit., Corrani Edizioni, 2014, p. 19.


ESERCIZI SVOLTI. 1

Compito della finestra:
descrivi quello che vedi dalla tua finestra. 


Paolo Nori,
Scuola elementare di scrittura per non frequentanti,
(con illustrazioni di YOCCI)
Corraini Edizioni, Mantova, 2014


Se è vero, dunque, che parlare significa essere sempre in cammino, è anche vero che quel cammino inizia molto lontano, forse molto prima di Osip Ėmil'evič Mandel'štam, del suo saperlo mettere a fuoco così bene. È lo stesso Paolo Nori, in un cero senso a indicarci quel punto di partenza, quando racconta che certe parole proprio non riesce a pronunciarle e che ha capito che questo gli succede perché nella sua lingua madre, quel parmigiano che lo accolto alla nascita e lo ha visto crescere, semplicemente quelle parole non esistono. E, quindi, non fanno parte del suo lessico famigliare.

«[...] l'altro giorno a me han chiesto di definire la cultura, più esattamente mi han chiesto, un mio amico, mi ha fatto questa domanda, «Che cos'è la cultura?», e c'era una telecamera che mi filmava, intanto che rispondevo, e gli ho detto che la cultura è una parola che io, a pronunciarla, mi vien vergogna, un po'; ci sono, gli ho detto, delle parole del genere, come anche il verbo amare, io amo è una frase che non riesco a dirla, e secondo me non riesco a dirla, ci ho pensato, secondo me non ci riesco perché, in dialetto parmigiano, non si dice, «Io ti amo» si dice «A't voj ben», «Ti voglio bene», e anche, non so, felicità, «Son felice», io se provo a dirlo faccio delle smorfie, mi casca la faccia, e mi casca perché, ci ho pensato, perché la felicità, in dialetto parmigiano, non esiste; «Sono felice», in dialetto parmigiano non lo puoi dire, puoi dire, al massimo, «A stag d'un ben», «Sto di un bene», e mi viene in mente Gianni Celati che dice che la felicità è un concetto americano, l'han messo anche nella costituzione, che, per carità, han fatto bene, ma se Parma avesse una costituzione, felicità non ce la potrebbero mettere, perché non c'è la parola, e non c'è neanche la parola cultura, secondo me, in dialetto parmigiano, uno che ha una gran cultura, non so come dirlo, «Von c'l'à studiè bombé», forse, uno che ha studiato molto, quindi a quella domanda lì, ho detto, non saprei rispondere, e ho detto che forse sarei stato più a mio agio a rispondere a una domanda su cos'era l'ignoranza, ma visto che mi avevano chiesto che cos'è la cultura, dovevo dire che non lo sapevo, non potevano farmi una seconda domanda? [...]» Paolo Nori, op. cit., Corraini Edizioni, 2014, p. 104.


Dopo aver letto questa pagina, sono andata a prendere in mano Pasolini, quello di Trasumanar e Organizzar, e nella prefazione di Franco Cordelli (Garzanti, collana "Gli elefanti") ho trovato delle parole che potrebbero essere buone, oggi, per dire della letteratura di Paolo Nori: «Pasolini a differenza dei poeti della sua generazione, e di quella precedente, per non parlare di quelli venuti dopo di lui, non ha mai paura dell'esplicito. Si può essere sicuri che ogni sua poesia vuole, essendo antipoetica, dire qualcosa di assolutamente poetico, cioè di assolutamente vero, della verità che gli scaturiva dalla vita fin lì vissuta, vissuta quel giorno, vissuta un minuto prima.»

Dopo aver letto questa pagina, poi, mi sono trovata a pensare anche a quel Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, citato poco sopra, a quelle malagrazie, quei sbrodeghezzi, quei potacci, quei loghi, delle prime pagine che fanno parte del dizionario dell'infanzia di tutti noi e che ancora oggi non sapremmo dire altrimenti.


E ho capito che siamo esseri tragicamente divisi a metà. Usiamo per esprimerci e per pensare quell'italiano-italiano che abbiamo imparato sui banchi di scuola, ma poi che abbiamo lasciato lì senza impadronircene fino al punto di farlo nostro. E per imparare questo pezzo di lingua, per me comunque fondamentale, abbiamo lasciato da parte il dialetto che ci ha definiti, che condividiamo ormai solo con i nostri cari, gli amici più intimi e i conoscenti dei luoghi dove siamo nati o cresciuti. Durante questo apprendimento incompiuto, abbiamo lasciato da parte, anche, la spontaneità di una terza lingua, quella dell'infanzia, fatta di parole improbabili, strampalate, capaci di aprire finestre impreviste su altri sensi e significati, scorci su nuove possibilità di mettere a fuoco le cose, giochi indivisibili tra il bambino che parla e chi l'adulto che ascolta.

E ho pensato, continuando a leggere il suo libro, che ha ragione, ancora una volta, Paolo Nori, ad aver creato la Scuola elementare di scrittura emiliana, che è un posto perfetto non solo per gli adulti che vogliono scrivere un romanzo, ma anche per gli insegnanti, per i bambini e i ragazzi, un posto dove abbandonando le sovrastrutture possono instaurare un dialogo coinvolgente e autentico, fuori dalle righe, vero.


Se sono fortunati, proprio come succede al lettore di Paolo Nori.


«[...] l'altro giorno sono stato a Firenze a leggere da un libro di favole che ho scritto io [n.d.r. Tredici fiabe belle e una brutta, Rizzoli, 2012], e il libro è scritto un po' come scrivo io, con una sintassi, diciamo così, eccentrica; l'esergo, per esempio, è questo: «Tutte quelle canzoni che uno impara da ragazzo cosa le impara a fare? Per cantarle da grande a sua figlia per farla addormentare», che è un libro che fin dall'esergo sembra scritto da uno che pensa che val più la pratica della grammatica, come si dice, e l'altro giorno, a Firenze, c'erano dei bambini di una quarta elementare che il libro l'avevan già letto e che, alla maestra, avevano chiesto perché io potevo scrivere delle cose che loro, se le avessero scritte, gliele avrebbero segnate come errore, perché io potevo scrivere in quel modo lì e loro no, avevano chiesto alla maestra, e io quando sono tornato a Bologna, l'altro giorno, sono andato in libreria ho trovato un libro per bambini di Lev Tolstoj che Tolstoj aveva intitolato L'abbecedario, e che nell'edizione italiana si intitola I quattro libri di lettura [n.d.r. qui in Gavroche], ed è scritto da Tolstoj e dai figli dei contadini della sua tenuta, e di questa esperienza Tolstoj parla in un saggio che si intitola "Chi deve imparare a scrivere da chi? I figli dei contadini da noi o noi dai figli dei contadini?", e io ho pensato a una volta che avevo detto a mia figlia che i gatti erano animali notturni e lei mi aveva detto che «Invece i bambini sono giornurni, come animali», e mi è venuto in mente che sarebbe molto bello fare una scuola, per bambini, di scrittura emiliana, dove non si insegnasse a scrivere l'italiano-italiano, che per quello c'è già la scuola, ma si insegnasse a scrivere nella lingua che gli viene, a scrivere delle cose senza avere paura di fare degli errori, a usare le parole, e le sillabe, e i suoni, come usano i colori quando fanno i disegni, senza preoccuparsi del fatto che non conoscono bene le regole della prospettiva, a scrivere come se disegnassero e magari, ho pensato, sarebbe bello fare anche una scuola materna, di scrittura emiliana, per capire chi deve imparare a scrivere da chi, i grandi dai bambini o i bambini dai grandi, e ho pensato che ai bambini potrei leggere qualcuna delle favole di Tolstoj e dei figli dei contadini della sua tenuta, [...]»
Paolo Nori, op. cit., Corraini Edizioni, 2014, p. 137.

«Perché se si può insegnare a disegnare, 
si può anche insegnare a scrivere, e a guardare» 

PAOLO NORI


INFO

MODO infoshop Interno 4 Bologna

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tel. 051/5871012 | info@modoinfoshop.com



 
corsi
da ottobre a dicembre 2014

TREDICESIMA SCUOLA ELEMENTARE DI SCRITTURA EMILIANA

maestro Paolo Nori

sono aperte le iscrizioni per la tredicesima scuola elementare di scrittura emiliana (con esercizi pratici)
maestro Paolo Nori

dieci incontri di due ore e mezzo, dalle 21 alle 23e30

per 9 lunedi e un martedì:
13, 20, 27 ottobre 2014
4, 10, 17, 24 novembre
1, 8, 15 dicembre

con questo programma:

I semicolti e le loro scritture, il letterario e il non letterario.
Il suono e il senso, la paura e il riso.
Andare fuori tema, straniarsi, non sapere.
Le liste, le fattografie, la storia delle cose.
I riassunti, le sostituzioni, il cosiddetto cut up.
La frase, la ripetizione della frase, diversi modi di ripetere la frase.
La trama e la non trama, il tutto e il niente.
Le biografie, le agiografie e l’incontrario delle agiografie.
Le poesie, il suono nelle poesie e l’incontrario delle poesie.
L’editoria, le pubblicazioni, il senso dello scrivere.
E delle altre cose.
Con esercizi.

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