lunedì 12 settembre 2011

SAPPIAMO DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI SCUOLA? # 1


Oggi sono iniziate le scuole per quasi 8 milioni di bambini e ragazzi.

E il dramma dell'incompetenza per come è pensata, gestita, amministrata, promossa l'istruzione da parte del nostro governo, ha raggiunto livelli preoccupanti per uno Stato che vuole definirsi civile.
Insieme all'inizio dell'anno scolastico, come un rito da sagra di paese, arriva il solito carrozzone carico di persone che interpretano - nell'ambito amministrativo e mediatico -  il ruolo di coloro che sono stati deputati a occuparsi di questa "piccola cosa", l'istruzione, la mente, il farsi civile e morale del futuro di uno Stato. 
La maggior parte non sa di che cosa sta parlando. E non se ne vergogna.

Da quanto tempo stiamo giocando con la vita, stiamo sospendendo il futuro, dei nostri bambini e ragazzi?
Possiamo continuare ad assistere impotenti alle proteste di chi prova a opporsi a questa forza di distruzione cieca e ottusa con la sola forza della convinzione o della disperazione?

Giocare con l'istruzione dei bambini e dei ragazzi, delle future generazioni, è una colpa che non ci verrà perdonata. Lasciare sole le persone che cercano di difendere i principi della nostra Costituzione è da irresponsabili, da incivili.
Chi ha avuto la fortuna di poter accedere all'istruzione scolastica ha il dovere di battersi, come cittadino prima che come parte in causa, perché la stessa opportunità possa essere riconosciuta ad altri e in forma sempre migliore.
Tutti ci sentiamo autorizzati a parlare di scuola. Un po' per esperienza, un po' per nostalgia e molto per supponenza, crediamo che aver raggiunto un grado minimo di istruzione ci elevi alla condizione di poterci esprimere con competenza sull'argomento. 

Quando ero piccola, diversi anni fa, e vivevo in una piccola cittadina, si salutavano gli insegnanti prima col titolo che con il cognome. Tanto che fossero buoni o cattivi insegnanti. Non era una mera forma di deferenza verso le persone, in quanto tali e perciò passibili dei più grandi difetti alcune di loro non l'avrebbero certo meritata quella premessa al saluto, ma era una sorta di rispetto verso ciò che quelle persone significavano in una comunità che riconosceva in loro i rappresentati di un mondo colto. Un mondo, a cui molti non avevano potuto accedere e per questo sentivano il segno di quella mancanza come un evidente meno. Non ho mai confuso la cultura con l'intelligenza e la qualità di una persona, non ho mai creduto in quel meno. È a molte di queste persone che si sentivano deficitarie che devo la mia parte migliore. Sono state loro che, tra le molte cose, mi hanno insegnato a vivere l'accesso all'istruzione e alle diverse forme culturali come un privilegio. 
Un privilegio che deve essere assicurato e reso accessibile a tutti.

Non sono fatta per guardare indietro come ad un tempo sempre migliore. Solo, mi ero immaginata che, nell'evoluzione della civiltà del mio Paese, quel titolo prima del cognome, un giorno e se fosse stato ancora necessario, sarebbe stato perfezionato dall'uso riservato a chi autorevolmente se lo sarebbe meritato. Quasi un segno di condivisa gratitudine. Io, che con i titoli non sono mai andata d'accordo. E invece no, è successo il contrario. La torre sui cui svettavano gli insegnanti, invece di essere fortificata dalla dotazione di maggiori e innovativi strumenti per metterli nella condizione di vedere sempre meglio e più lontano, è stata via via sgretolata. Si è tentato nel tempo di squalificare a piccoli e insistenti colpi di accetta la figura dell'insegnante, umiliandola nella sua integrità di persona, nei compensi e nelle intenzioni. Gli sono stati tolti mezzi e speranze. A ruota, com'era previsto fin dall'inizio, è arrivato puntuale il mancato riconoscimento del valore dell'istituzione scolastica pubblica tout court.
Tutto questo, un passo oggi uno domani, per giungere a sostenere lo sproposito di una sempiterna e pericolosa crisi scolastica che avrebbe condotto ad un'ormai conclamata "emergenza scolastica" affrontata da sacrificali paladini pronti ad attuare ferree riforme che riportino, a suon di tagli e propaganda, la "sventurata" sui rassicuranti binari di un'autorità chiusa, esclusiva, come si dice... ecco, fascista.

Proviamo a compiere lo sforzo di mettere da parte luoghi comuni e pregiudizi, i nostri tarli. Proviamo, per una volta, ad ascoltare loro, gli insegnanti, magari quelli davvero bravi... gli unici che possono spiegarci di che cosa parliamo quando parliamo di scuola.
Loro che continuano fattivamente a mandare avanti le scuole, non si sa come.

Tra questi, c'è sicuramente Girolamo De Michele che ho avuto la fortuna di conoscere, anche se con colpevole ritardo, grazie ad Angela Pesce, straordinaria insegnante a sua volta, che mi ha offerto l'opportunità di colmare questa lacuna grazie all'invito a una serata da lei organizzata nello scorso mese di maggio presso il Baraccano di Bologna (con l'intervento del maestro Gianluca Gabrielli e in collaborazione con la Libreria Trame e il Comitato Piazza Verdi. Per saperne di più della serata dell'incontro http://caffeletterario-bologna.blogautore.repubblica.it/2011/05/page/2/).

L'invito di Angela era per la presentazione del libro di Girolamo, La scuola è di tutti, una vera rivelazione. Non solo per i contenuti illuminanti - l'autore ha estrapolato i dati di riferimento dai documenti ufficiali e reperibili presso gli uffici e gli enti delle nostre istituzioni al fine di promuovere la loro conoscenza senza strumentalizzazioni e di denunciarne quindi la reiterata mistificazione - ma per l'intelligenza, competenza e l'autorevolezza che insieme alla profondità e dignità della scrittura mi hanno riportato alla mente i modi, la precisione e lo sguardo di Pier Paolo Pasolini.

Girolamo De Michele vive a Ferrara dove insegna in un liceo. Molti di voi lo conosceranno per la pubblicazione per Einaudi Stile Libero dei romanzi Tre uomini paradossaliScirocco La visione del cieco e per le Edizioni Ambiente di Con la faccia di c'era. Oppure, tra le diverse opere di filosofia e storia delle idee, per la cura insieme a Umberto Eco di Storia della bellezza per Bompiani. O, magari, per averlo letto sulla e-zine "Carmilla".

Girolamo De Michele 


La scuola è di tutti è un libro che, ne sono convinta, dovremmo leggere in tanti.

In questo post vi ho riportato la trascrizione integrale dell'introduzione per mano dell'autore. In realtà, è una lettera aperta a Mariastella Gelmini scritta lo scorso anno ma che, purtroppo, potrebbe essere stata scritta ieri.

Nel prossimo post (lunedì 19 settembre), lascerò la parola a Girolamo De Michele e Angela Pesce che si confronteranno sullo stato delle intenzioni e degli esiti della sedicente riforma scolastica frutto della crisi di valori politici e morali della nostra classe dirigente. Loro sanno e possono parlaci di scuola.


Girolamo De Michele, La scuola è di tutti,
Minimum fax, Roma, 2010


© minimum fax – tutti i diritti riservati


INTRODUZIONE
Col passo del montanaro.
Vita narrata di un insegnante per caso
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Bisogna fare molta fatica a testimoniare la 
parte migliore di sé col proprio lavoro, perché 
la parte peggiore non fa nessuna fatica a venire fuori.

Mauro Pagani



Mi scuserà, ministro, se non La chiamerò né «signora» né «ministra», e userò il genere neutro per rivolgermi a Lei: ma è il genere che si addice alle funzioni, e in Lei non riesco a vedere nulla in più di una funzionaria. Se ne farà una ragione, o probabilmente no: Le assicuro che va bene così. Sono qui, dunque, a narrarLe la vita di un insegnante: sono cose utili da sapere per chi un giorno volesse dirigere un ministero d’istruzione.

 
Alcuni anni fa, in un liceo nel quale insegnavo, arrivò una ex studentessa a chiederci di sottoporci a dei test per un esame che doveva sostenere. Erano delle rilevazioni sulla professione di insegnante. Una di queste domande era: «Quando hai deciso di diventare insegnante?» «Mai», risposi tra lo sconcerto dei colleghi (delle colleghe, in verità): «non l’ho deciso, mi è capitato», spiegai. E qui lo sconcerto si trasformò in aperta disapprovazione: ero un insegnante che non si vergognava di ammettere di non sentire l’insegnamento come «missione» o «vocazione», che ammetteva candidamente di non aver avuto come scopo nella vita o negli studi di diventare insegnante. Che, se avesse potuto scegliere, avrebbe fatto altro.   Ah!, lo spirito di missione, quella «condizione di orgasmo e di spasimo, che determina inettitudine all’operare»... 
Il fatto è che a me è andata così, come del resto alla maggior parte di noi insegnanti: cominci con qualche chiamata, una qua una là, che accetti perché intanto sono soldi che fanno comodo, specie se sei precario o disoccupato. Poi le chiamate cominciano a diventare frequenti, e a un certo punto diventa difficile fare altro, perché i tempi della scuola tendono a totalizzare la tua vita, e devi scegliere: o entri, e speri che ti vada bene, o lasci. Io ho scelto: non avevo un altro lavoro, avevo una figlia da mantenere, c’era poco da fare lo schizzinoso. Soprattutto perché i molti lavori fatti nel duro periodo della crisi dei primi anni Novanta mi avevano insegnato che ci sono mestieri meno pagati o più duri dell’insegnante (e spesso sia l’una che l’altra). Ed eccomi qui, a cercare di fare al meglio quello che faccio. Molto meglio, ne sono sicuro, delle missionarie animate dal sacro fuoco della vocazione di cui sopra. E molto meglio, per come m’è andata e mi va, di tanti amici e colleghi precari. 
Ma come si diventa insegnanti?  
Mi è capitato, in una sera di zapping in cui aspettavo che passasse l’attacco di asma, di sentire in televisione una «esponente politica» dalle labbra rifatte – che dunque non si fida neanche della propria bocca – affermare: «Sappiamo tutti che i concorsi per insegnanti sono ridicoli».Ma davvero è così facile diventare insegnante? Più facile che entrare in politica? Be’, anche se non tutti sono bravi a portare il tacco da dodici e a bazzicare il Billionaire, per essere insegnante ci vuole qualcosa di diverso.   Partiamo da me. Io insegnante lo sono diventato vincendo tre concorsi, due nel 1992 e uno nel 2000. L’ultimo, in verità, era la ripetizione del primo concorso: non avendo avuto la cattedra allora, ho dovuto rifarlo.   I concorsi servono a conquistare quell’ambita certificazione che è l’abilitazione all’insegnamento. In genere si crede (sembrano crederlo anche alcuni ministri, stando a quel che dicono) che nella scuola cominci a fare supplenze, di supplenza in supplenza vai avanti, finché non sei assunto: non è così. Per essere assunto devi avere l’abilitazione, altrimenti puoi insegnare per vent’anni e non sarai mai assunto, cioè non diventerai mai insegnante di ruolo. Però, attenzione: puoi avere l’abilitazione e andare in pensione senza essere mai stato assunto. Allo Stato, e quindi a Lei, conviene: i precari sono sempre al più basso livello salariale (hanno scatti di stipendio per anzianità solo se insegnano religione: «nella scuola italiana il merito non viene riconosciuto, ma la vocazione viene rispettata. E retribuita»3), quasi sempre non sono pagati a luglio e agosto, se alla loro cattedra manca un’ora prendono meno... Insomma, i precari sono l’anello di congiunzione tra il lavoratore salariato e l’extracomunitario pagato in nero. Con i concorsi, se sei arrivato tra i primi, puoi sperare di avere subito il ruolo: altrimenti entri in una graduatoria degli abilitati, e metti su punti anno dopo anno, più o meno come nelle classifiche dei campioni di tennis, finché hai la sospirata assunzione. Nei concorsi che ho fatto dovevo rispondere sui programmi delle materie che avrei, eventualmente, insegnato: nel mio caso, storia e filosofia, più l’educazione civica e la normativa scolastica. In uno dei tre concorsi la prima domanda era sempre sulla normativa, e chi non rispondeva era bocciato. Nel concorso del 2000 il mio programma d’esame orale prevedeva: tutta la filosofia del triennio superiore, tutta la storia del quinquennio (anche se storia nel primo biennio non posso insegnarla), dieci classici di filosofia con relativa bibliografia, più un percorso triennale, dieci unità didattiche di storia. Per arrivare all’orale avevo sostenuto due scritti, nei quali ero tenuto ad avere un punteggio minimo di 28/40 senza insufficienze: la media del 7, insomma, non la semplice sufficienza. Regione per regione, le percentuali degli ammessi all’orale furono del 15-20%; in alcune regioni il numero degli ammessi all’orale era addirittura inferiore al numero di posti liberi. E all’orale la media dei promossi era più o meno del 60%. Insomma, per ogni 100 partecipanti solo 10-12 arrivarono in fondo.  C’erano altri tipi di concorsi, come quelli riservati a precari che avevano una certa anzianità di servizio: ma, di nuovo, la «sanatoria» consisteva nel poter fare un concorso, non nell’essere promosso d’ufficio. E se le percentuali dei promossi, nel caso dei riservati, erano più alte di quelle dei concorsi ordinari, era perché si trattava di concorsi in cui degli insegnanti dovevano dimostrare di saper fare quello che già facevano: gli insegnanti, appunto.  
E niente insegna il mestiere come la pratica in classe: non c’è corso universitario o para-universitario che tenga. È nell’acqua alta che si impara a nuotare, non sui manuali di nuoto: e l’acqua alta è l’immersione in classe.  
E così, dopo anni in cui sono rimbalzato da una scuola all’altra, a seconda dei posti a disposizione, sono entrato. Ma su base regionale: arrivai terzo, e il terzo posto corrispondeva a una cattedra a Reggio Emilia. Ogni mattina, partendo da Ferrara alle 5 andavo in macchina a prendere la corriera, con la quale arrivavo a Bologna in tempo per un caffè al volo prima di salta- re sul treno che mi portava a Reggio per l’autobus delle 8. Al ritorno, grazie al buon cuore degli autisti del tram che mi tiravano su quando mi vedevano correre dietro l’autobus appena partito, potevo sperare di prendere un treno al volo per arrivare, verso le 16.30-17, a casa. Ferrovie permettendo, ovviamente. Del resto non era la prima volta che avevo orari di questo tipo: il precario va dove lo chiamano, e spesso i primi anni di ruolo sono anni di precariato di fatto. Soprattutto dal punto di vista del salario. Ma almeno, dicevano, ero arrivato al termine del calvario: macché! Per un neo-assunto nella scuola, il primo anno è un anno di prova, al termine del quale c’è un esame. E se l’esame va male, l’immissione in ruolo decade. Lo so che Lei, ministro, ha detto (o lo ha detto il suo collega Brunetta?) che non si può accedere a un posto di lavoro così delicato solo per aver vinto un concorso, e ha istituito una commissione presieduta dal professor Israel, che si vanta di aver introdotto, tra gli studi e l’immissione in ruolo, l’anno di apprendistato.  
Le do una notizia: l’anno di apprendistato esiste già.  
Quanto alla frase sugli insegnanti che vanno in cattedra solo per aver vinto un concorso, non è originale: l’aveva già detta il presidente Cossiga a proposito di un giovane magistrato meridionale, Rosario Livatino (brutalmente ucciso qualche tempo dopo da due sicari della mafia). 
Insomma, dopo un corso in cui hanno insegnato a un insegnante che faceva da anni l’insegnante a fare l’insegnante, ho dovuto sostenere un esame per dimostrare di essere (diventato?) un insegnante: una lezione davanti a una commissione presieduta dalla preside. La lezione che avevo scelto era sulla filosofia scolastica, e un’anziana collega che mi aveva valutato mi disse, in separata sede, che s’era commossa ad ascoltarmi. Qualche giorno dopo ho saputo che era sorella del cardinale Ruini.  
Così, da allora, faccio (lo ripeto: «faccio», non «sono») ufficialmente l’insegnante. Uno dei tanti meridionali saliti al Nord a rubare il lavoro ai padani? Intanto, benché viva da trent’anni in Emilia, io sono italiano, non meridionale né «padano». Anzi: sono cittadino del mondo, perché sono un essere umano, e per me nessun essere umano è illegale. O meglio: illegali, cioè extracomunitari (della democrazia) e clandestini (del genere umano), sono quelli che vorrebbero fare di noi insegnanti dei gendarmi per negare il diritto universale all’istruzione a qualche ragazzo proveniente da un paese diverso dal nostro. E, in secondo luogo, spostarmi alla ricerca di un lavoro è un mio diritto costituzionale: «Non per dare i numeri, ma l’art. 3 della Costituzione sta ancora lì a dettare il principio d’eguaglianza. A sua volta l’art. 51 specifica il medesimo principio circa l’accesso ai pubblici uffici. L’art. 97 impone il reclutamento dei migliori nelle prove concorsuali, senza riguardo al loro indirizzo postale».
E l’art. 120 afferma che una Regione «non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale». GlieLo ricordo non per farLe vedere che la Costituzione, oltre a insegnarla, la conosco: ma solo perché sono informazioni che vengono utili a chi voglia fare il ministro. 
 
Ma due parole su questa storia dei meridionali che salgono al Nord voglio dirglieLe.  
È vero, molti precari vanno a insegnare al Nord. Muoversi dal Sud al Nord, in Italia, è ben più disagevole che vivere in una grande città e prendere un low cost per Barcellona o Londra, costa di più e richiede molto più tempo. Eppure non si parla quasi mai dell’emigrazione interna come di una «fuga dei cervelli»: nonostante i drammatici dati che attestano, nel decennio 1997-2008, la migrazione di 700.000 meridionali al Nord (173.000 nel solo 2008). Quasi la metà svolge professioni di livello elevato, uno su quattro ha la laurea. Secondo il Rapporto svimez 2009, «caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. Le campagne meridionali si spopolano, ma non a vantaggio delle vicine aree urbane».
I precari emigrano, dunque: perché al Sud, dove risiedono tre quarti delle famiglie povere italiane,6 il lavoro non c’è, mentre al Nord mancano gli insegnanti. Mi spiego: con uno stipendio da precario al Nord non ci si campa, e di sicuro non si mette da parte qualcosa per l’estate senza stipendio. Chi emigra in altre scuole lo fa solo per quei maledetti dodici punti in graduatoria (ma anche meno: dieci, otto, sei...). Certo però non ci guadagna in termini economici; anzi, ci rimette. E dove emigra? Dove le graduatorie sono esaurite, o quasi: dove, anche con quattro punti, si riesce a lavorare. Poi capita che, lavorando, anno dopo anno si diventi residenti: è un problema? Se sì, lo è solo per qualche testa bacata che, dopo aver diviso gli esseri umani in italiani e non, divide gli italiani in Nord e Sud, il Nord in casa mia e casa tua, e via dicendo. E finisce col chiedere insegnanti territoriali: perché, a quanto sembra (anche a Lei, ministro, se devo credere a quel che leggo in qualche intervista), solo un insegnante veneto può garantire che la Serenissima Repubblica di Venezia sia insegnata correttamente. Poi si tratta di capirsi: quale insegnante veneto? Quello veneziano, che spiegherà l’espansione di Venezia come la legittima crescita di uno Stato moderno, o quello padovano, che parlerà di imperialismo veneziano? E chi garantirà che a Vicenza non si insegni come verità storica quella brutta diceria sui vicentini che sarebbero dei mangiagatti, se un veronese o un trevigiano possono passare la frontiera e andare a insegnare nelle terre del Palladio? Non sarà il caso di restringere le graduatorie su base provinciale, o, meglio ancora, comunale? 
 
Ma intanto Lei ha trovato anche il tempo di partecipare, sulle pagine del Gazzettino, a un surreale dibattito col ministro Zaia sull’introduzione del dialetto veneto nelle scuole. Tra uno Zaia che cita Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar credendolo l’autobiografia dell’imperatore Adriano e Lei che risponde con un italiano da matita rossa, che suppongo Le sia stato insegnato al liceo confessionale che ha frequentato a Brescia, nessuno di voi ha fatto mente locale sul fatto che i dialetti traggono la loro forza ed espressività dall’essere i linguaggi della strada, del mercato, della piazza, e che trasportarli in un’aula scolastica per farne oggetto di studio, valutazione (ed eventuale bocciatura?) significherebbe snaturarli e, alla lunga, ucciderli. Così come nessuno di voi due sembra sapere che i dialetti hanno un’ortografia, una sintassi e una grammatica molto complesse, per niente univoche, che spesso richiedono, per essere comprese, la pre-conoscenza delle lingue classiche (latino, greco) o straniere (francese, spagnolo, alto-tedesco) da cui tali dialetti sono stati influenzati e attraversati. Ma c’era bisogno, lo ammette Lei stessa, di «visibilità elettorale», e dunque... Intanto il vostro dibattito è sul sito del governo, nella rassegna stampa, dove chiunque, in cerca di informazioni su di voi, può trovarlo e leggerlo. E farsi un’idea del livello di alfabetizzazione di chi discute dei destini della scuola. 
Chiedo scusa se mi sono perso. Le parlavo della mia carriera, dal precariato all’abilitazione. Avevo dimenticato di dire che, in fondo, m’è andata bene: almeno le ssis me le sono evitate. Le Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario (ssis): le famigerate scuole biennali per diventare insegnanti. C’è un giornalista suo amico che considera scandaloso che in queste scuole si insegni come insegnare Dante, e non Dante.Forse nessuno ha detto a quel suo amico che chi si iscriveva a una scuola di specializzazione era già laureato, e Dante l’aveva già studiato: ma questi sono i suoi consiglieri, ministro. Le ssis, dicevo: nate come un’alternativa ai concorsi. Una fortissima selezione iniziale, due anni di corso con alte tasse di iscrizione, e dopo due anni e 5000 euro (di sole tasse) l’esame di abilitazione e il sospirato titolo. Che non serviva a diventare insegnanti entro un paio d’anni, come era stato promesso (o vogliamo dire «subdolamente adombrato»?). Con quel titolo i cosiddetti «sissini» entravano in posizione medio-bassa (com’era del resto giusto) in una graduatoria che non scorreva, perché non c’erano assunzioni. Però ogni anno le ssis venivano rinnovate, e migliaia di neolaureati si lasciavano abbindolare dalle promesse: così, mentre la testa della graduatoria era bloccata, il numero degli iscritti aumentava.  
Ricorda, ministro? Eravate voi al governo, e nello specifico era l’onorevole ed ex preside Valentina Aprea la paladina delle ssis. Adesso Lei e il suo collega Brunetta definite scandaloso l’aver illuso decine di migliaia di precari: e allora perché la principale responsabile di questo scandalo, l’onorevole Aprea, è ancora in un ruolo dirigente del sistema istruzione (come presidente della Commissione Cultura), invece di essere stata rimandata a lavorare, cioè a fare il dirigente scolastico?  
Forse per amore della scuola? Be’, io ho avuto in classe, a fare il praticantato, qualche iscritta alle ssis. Di una, in particolare, ricordo che era stata costretta a iscriversi a Ferrara, dove c’erano i posti ma non i candidati, perché il demenziale criterio di attribuzione dei posti a numero chiuso ne fissava pochissimi a casa sua, dove i candidati erano molti. E così, tre mesi dopo essersi sposata, Alessia si era trasferita al Nord a fare la vita della studentessa, in quattro a dividersi una casa, mentre suo padre era tornato a lavorare per pagarle la specializzazione. A lei almeno è andata bene, perché ha seguito corsi tenuti da qualche buon insegnante. Ma cosa dire di quelli che, dopo aver pagato l’iscrizione, sono stati costretti a seguire dei corsi che erano la ripetizione pari pari di quelli già sostenuti all’università, magari senza rapporto con i curricoli e i programmi della scuola? 
E adesso eccomi qui, a scuola. Bel lavoro, dicono: diciotto ore a settimana, e il resto del tempo al bar. Potrei rispondere che una documentata indagine ha dimostrato che un insegnante lavora mediamente più di 1600 ore all’anno. Le sembra molto? In effetti, sembra sia il tempo di lavoro effettivo più alto tra i dipendenti statali. Facciamo un rapido calcolo: di quanto tempo di studio ha bisogno un ragazzo per preparare un’interrogazione di una ventina di minuti, o una verifica di un’ora? E a noi insegnanti, per preparare un’ora di lezione, non volete concederne almeno un’altra di lavoro? E diciotto ore di lezione più diciotto di preparazione fanno già trentasei ore settimanali. Senza il conto delle riunioni, dei Consigli di Classe, dei Collegi Docenti, dei colloqui con le famiglie, dei Dipartimenti, delle Commissioni; della correzione dei compiti scritti; dell’aggiornamento. Ha idea, per dire, di quante ore di lavoro abbiamo dovuto impiegare noi insegnanti per acquisire una competenza su Afghanistan, Pakistan, Bin Laden, crisi economica e politica, all’indomani dell’attentato alle Twin Towers? Quanti libri e giornali abbiamo dovuto comprare, ovviamente a nostre spese e senza rimborso? Ma eravamo a scuola, e la scuola, ci dicevano, doveva fare il proprio dovere. 
Perché se non ci pensa la scuola, chi informa i ragazzi? La scuola, quando io ero studente, mi insegnava meno della metà delle cose che sapevo. Il resto lo imparavo nella società, che allora poteva ben essere chiamata «civile». Oggi, quando faccio la lezione sulla strage di piazza Fontana, scopro che il più delle volte in un’intera classe la maggior parte dei miei alunni non sa che il 12 dicembre 1969 un terrorista ha messo una bomba in una banca piena di contadini che versavano l’incasso del mercato, uccidendo diciassette persone e ferendone quasi cento: prima della scuola nessuno ha spiegato loro cos’è stato il terrorismo, quando e come è cominciato, cosa ne è seguito. Capita che gli studenti credano che a mettere quella bomba siano state le Brigate Rosse, e non i fascisti; o i «terroristi musulmani», e non degli italiani (per di più sedicenti difensori dei «valori cristiani»). Però per spiegare quello che in ogni famiglia dovrebbe essere noto, devo rinunciare a spiegare un’altra cosa. Che magari sarà argomento dei test d’ingresso all’università, e se parecchi candidati non supereranno il test qualcuno (Lei per primo, ministro) dirà che la colpa è della scuola che non insegna. Perché, alla fine, di tutto quello che i ragazzi non sanno la colpa è della scuola, mentre quello che la scuola insegna sembra non contare. E per quanto? Per il 75% del salario di un operaio metalmeccanico tedesco. Che, voglio essere chiaro, prende il giusto: sono io che prendo una cifra ridicola, rispetto al valore reale di quello che produco. Dalla mia bocca, dal mio gesso sempre in movimento sulla lavagna, dal mio lavoro viene fuori qualcosa che aiuterà i ragazzi a diventare cittadini attivi. Qualcosa che insegna loro a comprendere il mondo, a interpretarlo, ad avere criteri di giudizio e di valore – che sono sempre preferibili ai giudizi e ai valori preconfezionati, assunti senza rifletterci perché «lo ha detto alla televisione il molto importante tal dei tali», che dunque deve avere ragione. Lasciamo da parte il tempo di lavoro: qual è il valore reale, concreto di quello che io creo nel rapporto con i ragazzi?  Di quanto è inferiore quello che Lei mi fa trovare in busta paga ogni mese – che comunque è sensibilmente più di quello che prende il bidello, che ha anche lui figli da mantenere, l’operaio in fabbrica, la mia ex allieva laureata in filosofia che fa la commessa, le mie sorelle precarie da una vita? 
E per questi quattro soldi passiamo la vita a schivare gli sputi di chiunque ritenga di essere esperto di scuola. Ernesto Galli della Loggia, ad esempio, ha definito la scuola italiana «una macchina senz’anima», della quale «si possono tranquillamente frequentare le [...] aule e non essere mai sfiorati dal sospetto che l’azione del conte di Cavour, o il Dialogo sopra i massimi sistemi, o una terzina del Paradiso rappresentano vertici d’intelligenza, di verità e di vita, posti davanti a noi come termini di confronto ideali, ma anche concretissimi, destinati ad accompagnarci in qualche modo per tutta l’esistenza». Poi capita che il professor Galli della Loggia frequenti il Festival della Letteratura di Mantova o il Salone Internazionale del Libro di Torino, e non si chieda mai chi sono quei ragazzi con le magliette colorate che lavorano dentro quegli eventi: be’, sono studenti delle scuole, e fanno volontariato. Non guadagnano una lira, si pagano le spese di viaggio e di alloggio, oppure dormono in sacco a pelo o in una brandina dentro una palestra, mangiano al volo quel che capita, ma sono lì: so bene quel che dico, ministro, perché tra loro ci sono anche miei studenti (e anche noi professori facciamo lo stesso, sacco a pelo compreso). Sarebbe possibile, se la scuola non avesse fatto comprendere agli studenti il valore e l’importanza dei libri e della cultura? Eppure questi ragazzi e ragazze sono trasparenti alla vista di tanti illustri editorialisti, che nondimeno si sentono esperti di scuola. 
 
E perché non dovrebbero sentirsi tali? Tutti quanti abbiamo, da bambini, tirato due calci a un pallone e abbiamo passato qualche anno sui banchi, dunque ci sentiamo tutti competenti sulla formazione della nazionale di calcio e sulla scuola. E se anche non fosse, esiste una cosa che chiamerei «proprietà transitiva dell’autorevolezza», di cui ha dato un efficace esempio Totò in San Giovanni decollato. In quel film il grande comico vestiva i panni di Mastr’Agostino Miciacio, un ciabattino talmente bravo da essere soprannominato «il professore», dunque per definizione un professore tout court: un pozzo di scienza capace persino di sapere come si fa una scarpa. Su questa transitività dell’autorevolezza sono stati costruiti, negli ultimi decenni, la gran parte dei talk-show televisivi, che hanno contribuito a diffonderla nella società: sei un autorevole critico d’arte, dunque sei esperto di diritto, di politica, eccetera; sei un autorevole studioso di estetica, dunque sei esperto di sessuologia, storia, eccetera. A forza di reiterare questi discorsi se ne forma uno più generale, che assume il valore di una legge: chi è autorevole in un campo lo è (o ritiene di esserlo) sull’intero globo terracqueo. Dunque anche – perché no? – sulla scuola. Ed ecco che i salotti mediatici si riempiono delle più strane professioni per parlare di scuola. Ne manca solo una, di queste professioni: quella dell’insegnante.  
Ed eccoci dunque sotto gli sputi, come chiunque perseveri in direzione ostinata e contraria rispetto al vento che tira: maledetti professori!, dunque. 
Ha proprio ragione Ilvo Diamanti:  
Maledetti professori. Pretendono di insegnare in una società dove nessuno – o quasi – ritiene di aver qualcosa da imparare. Pretendono di educare in una società dove ogni categoria, ogni gruppo, ogni cellula, ogni molecola ritiene di avere il monopolio dei diritti e dei valori. Pretendono di trasmettere cultura in una società dove più della cultura conta il culturismo. Più delle conoscenze: i muscoli. Più dell’informazione critica: le veline. Una società in cui conti – anzi: esisti – solo se vai in tivù. Dove puoi dire la tua, di- ventare «opinionista» anche (soprattutto?) se non sai nulla. Se sei una «pupa ignorante», un tronista o un «amico» palestrato, che legge solo i titoli della stampa gossip. Una società dove nessuno ritiene di aver qualcosa da imparare. E non sopporta chi pretende – per professione – di aver qualcosa da insegnare agli altri. Dunque, una società senza «studenti». Perché dovrebbe aver bisogno di docenti? Maledetti professori. Non servono più a nulla. Meglio abolirli per legge. E mandarli, finalmente, a lavorare.

È in momenti come questi che ho cominciato ad amare i Radiohead: «Limb by limb and tooth by tooth / It’s tearing up in- side of me. / Everyday, every hour I wish that I / Was bullet proof».
Le racconto una storia vera, ministro. È accaduta nella mia scuola. Durante la mia ora libera si apre il portone, e un bravo cittadino prima si scusa, poi si assicura che sia proprio una scuola, infine fa entrare un’anziana signora che non parla italiano. Dice solo una parola: «Russo». Il cittadino l’ha incontrata in strada, ha capito che ha un problema, ma come fare a comunicare con lei? Poi ha visto il portone della scuola, e ha pensato: forse lì... In effetti sì, qui almeno uno che parla il russo c’è: un mio alunno, nativo di Kaliningrad (ha anche visto la tomba di Kant, alle scuole medie: chi era Kant è poi toccato a me insegnarglielo, otto anni e 2560 chilometri dopo), in Italia da due anni. Lo vado a chiamare, mentre la signora si guarda intorno, come per ricordarsi dove deve andare. Il ragazzo arriva, comincia a parlarle, ma la situazione non migliora: la donna non sa come si chiama, non ha un documento, e non sa dove deve andare. Le bidelle chiamano in sede, dalla presidenza dicono di portare lì la signora. Lo studente la accompagna assieme a una bidella. Da lì, una telefonata informale risolve il «caso»: è la madre, con regolare permesso di soggiorno, di una lavoratrice in regola, in Alzheimer avanzato; era uscita di casa e si era, in ogni senso, persa. La figlia temeva il peggio, aveva già allertato questura e ospedali. Dieci minuti di libro Cuore, ed è finita. Poi mi è venuto da almanaccare tutto quello che manca, in questa storia: un luogo dove portare, mentre lavori, la madre anziana (non importa se russa o italiana) che non vuoi o non puoi ricoverare; centri per anziani; vigili che parlano il russo, in una città che di badanti russe ne ha a centinaia (basta vedere la folla nella piccola chiesetta ortodossa un tempo quasi spopolata)...   
Ecco: è la scuola che tappa tutti questi buchi. Per ora. Il fatto è che per un verso la scuola è, come dice il mio amico maestro elementare Mirco, lo specchio di una società impazzita: di una società nella quale, come in una crema che non si è amalgamata, i singoli elementi galleggiano separati qua e là. Per un altro verso, invece, la scuola è l’ultima componente della società che si oppone a questa broda disgustosa: le è stato dato questo compito, e volente o nolente se ne deve fare carico. 
E Lei, ministro, non trova di meglio che scagliarsi contro il fatidico Sessantotto. 
 
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In questi quarant’anni nei quali lei vede l’ombra lunghissima del Sessantotto, è successo invece l’esatto contrario di quello che il Sessantotto aveva cercato di costruire: ci è stato insegnato che le parole servono per litigare, non per intendersi. In questi quarant’anni è stata messa all’opera ogni sorta di strategia retorica, comunicativa, discorsiva per avvelenare la capacità di giudizio, la stessa facoltà di ragionare di una nazione. Basta pensare alla televisione: alla sostituzione dell’informazione e dell’inchiesta con la telerissa, dei programmi educativi con programmi soft-porno; i cosiddetti reality educano a «nominare», cioè a discriminare ed escludere, e insegnano che l’unico modo per stare insieme è in una classifica nella quale uno vince, e gli altri perdono; i quiz educano a considerare la cultura come una domanda elementare la cui risposta è solo Sì/No; il culto di santi miracolosi, la moltiplicazione delle madonne piangenti, l’orgia di misteri ed eventi inspiegabili si abbatte come l’onda di un maremoto sullo spettatore, persuaso a una fede nell’irrazionale che contrasta con l’idea che cultura e intelligenza rendano l’uomo libero perché autonomo. Questa proliferazione di discorsi, di comportamenti, di strategie persuasive ha minato alla base la capacità di autonomia, di ragione, di coesione della società italiana. Ha favorito la nascita di una generazione di individui passivi, pavidi e paurosi; uomini e donne che si percepiscono impotenti e affidano le proprie sorti ai miracoli, poco importa se politici o religiosi. Ha sostituito l’etica con i gratta-e-vinci, la verifica dei fatti con la cieca fiducia. È persino ammirevole il modo in cui le parole si siano poco a poco trasformate in pratiche, come abbiano dapprima insensibilmente, poi con sempre maggiore evidenza modificato l’ordine delle cose. L’ordine di questi discorsi è coerente con l’ordinedelle cose che si è imposto dagli anni Ottanta: cinismo, arrivismo, individualismo, ignoranza.Siamo arrivati alla glorificazione di un manigoldo che, prima ancora di incassare tangenti, ha rubato gli ideali e i valori di un secolo: che ha tradito milioni di uomini e donne – a partire dai miei genitori – che credevano nell’uguaglianza, nella giustizia, nella libertà. Un manigoldo che aveva una parte del muscolo cardiaco necrotizzata: probabilmente la sede della coscienza morale e dei valori etici. Oggi gli si dedicano strade, forse domani qualche scuola: un Liceo Bettino Craxi prenderà il posto delle scuole intitolate a Sandro Pertini.  
Rispetto a questo la scuola resiste: è, per la maggioranza degli italiani nelle cui case ci sono quasi sempre pochi o nessun libro, l’unico luogo in cui esistono libri, nei quali le parole sono strumenti di trasmissione culturale, in cui si pratica l’agire comune. Noi resistiamo, ministro. Come un’anomalia o una distrazione: ma resistiamo. Perché quello che facciamo è incompatibile con la cultura della sua parte politica – e non importa che voi siate maggioranza o no: essere «di più» non significa essere migliori. Voi siete portatori di una cultura del sondaggio, del qui-e-ora, dei risultati cotti e mangiati nel minor tempo possibile. Vi fate un vanto dei vostri tempi brevi.  
Un grande scrittore, David Foster Wallace, uno di quelli che nascono solo di tanto in tanto, è stato chiamato qualche anno fa da una scuola americana per tenere un discorso agli studenti che uscivano dalla scuola per entrare nel mondo. Ha iniziato a raccontare, apparentemente senza senso, di come le nostre giornate siano rese stressanti e infelici da quelli che ci impongono la loro disturbante presenza nelle file del supermarket, nella strada ingorgata dal traffico, e così via. Poi ha cominciato a insinuare nei suoi ascoltatori il dubbio che dietro ciascuno di quegli anonimi individui che sembrano essere lì solo per dar fastidio a noi ci sia un dolore, un malessere, una sofferenza che non riusciamo a vedere perché siamo troppo chiusi in noi stessi, ci sentiamo liberi e sovrani senza accorgerci di essere confinati «nei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato». Finiamo per operare secondo modalità predefinite, e non ci accorgiamo che esiste un altro genere di libertà, «spesso taciuto nel mondo esterno fatto di vittorie, conquiste e ostentazione»: 
Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo. 
Quello che David Foster Wallace ha raccontato agli studenti è quello che facciamo noi insegnanti: qualcosa che non ha a che fare con i quiz a cui si risponde in dieci secondi, ma col compito di una vita, con la «difficoltà inimmaginabile» di «vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno».  Voi andate veloci, come certi atleti che dopano il proprio corpo per poter dire di esser arrivati primi, perché l’importante è arrivare prima degli altri. Noi procediamo giorno per giorno, sapendo che ogni passo dev’essere posato con calma sul sentiero: come il montanaro che non sottomette la bellezza del cammino alla fretta di arrivare alla meta. 
La vostra cultura politica governa da trent’anni, ministro: come un’abitudine o un’anestesia, per dirla con Fabrizio De André. E la cosiddetta opposizione, quando per caso o per fortuna riesce ad andare al governo, fa il possibile per sembrare simile a voi: avete colonizzato non solo il paese, ma la stessa opposizione. In questi trent’anni è stato distrutto il tessuto sociale e solidale di un paese, proprio quando la trasformazione della società avrebbe richiesto più socializzazione, più centri sociali, più case famiglia, più piazze piene di gente, più centri di quartiere, più biblioteche. E tutti i «casi problematici», tutte le «criticità» – per dirla col burocratese ormai invalso – si scaricano sulla scuola. Noi insegnanti siamo in prima linea, lanciati allo sbaraglio contro il vuoto che riempie i nostri ragazzi. Allunghiamo la mano aperta e cerchiamo di chiuderla, e a volte ci rimangono impigliate delle vite. Non numeri, dati, certificazioni, portfolii: vite piene di speranze e disperazioni, di passioni, storie in carne e ossa. Magari per i capelli, magari per il cappuccio di una felpa, ma li afferriamo sull’orlo dell’abisso: Lei, ministro, crede che tutto questo sia misurabile con i suoi test valutativi? Che esistano parametri numerici oggettivi della disperazione e della gioia di vivere? Che esistano criteri uniformi della tristezza e del dolore, piuttosto che della felicità e dell’amore? Nella logica della misurazione e della valutazione, scriveva l’insegnante Sandro Onofri, «quell’epoca della vita più condizionata da un magma di intelligenza sfrenata e di fanatica stupidità, l’adolescenza, l’epoca in cui l’esperienza la si conquista a morsi, e un giorno ti schiaccia e l’altro la fotti, non può non venire trascurata, poco considerata, malintesa. Troppo inquieta e troppo inquietante, troppo complicata». Ma noi insegnanti, quando non abbiamo a che fare con i bambini – e non è facile – è con l’adolescenza e gli adolescenti che abbiamo a che fare ogni giorno, ministro.«In genere gli adulti cercano di correggerla. Nel migliore dei casi aspettano che passi», continuava Onofri. Un poeta, che è stato un insegnante molto amato, ha cantato delle brave professoresse che dedicano indefesse il loro tempo «a raccontare quei poeti che avevano tanto da dire e nulla da dare ai vuoti a perdere che siamo nel gelo quotidiano», mentre «la quiete del nulla riprende a regnare sul manipolo stanco di ragazzi da amare».
Sono parole lente e complesse.  
Non sono buone da usare come slogan. Non sono nei riassunti che impara a memoria, come i suoi colleghi del resto, per ben figurare in televisione o su Facebook, e ai quali, come il personaggio di un film di qualche anno fa, Lei finisce per credere davvero.  
Lei, ministro, è solo la somma di mille riassunti. E sono tutti cattivi riassunti. 



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