giovedì 8 settembre 2011

IO NON CONOSCO I BAMBINI

Io so di non conoscere i bambini. Lo so davvero. 
Non per qualche fatto costituzionale o di stato, vita appartata, disattenta o altro che sia. Lo so, prima di tutto, perché sono stata un bambino anch'io, una bambina a dirla tutta, che è ancora qualcosa di diverso. E di quel ricordo dell'essere, che non so scindere dal vivere attuale, serbo tuttora una memoria precisa e integra. Rammento alla perfezione le misure esatte delle lunghezze e delle larghezze del perimetro della distanza che mi separava dal resto del mondo e, in esso, dagli adulti. Soprattuto da chi, possedendo molte più parole delle mie, trovava nomi e pensieri per definire la mia materia ancora informe. Capita ancora oggi, ma di parole ne possiedo molte di più e allora non succede niente che non voglio che succeda anch'io. 

La profonda onestà dell'infanzia risiede nell'incertezza delle infinite possibilità del divenire. Credere di conoscere un bambino significa limitare queste possibilità, tradire quell'onestà riposta nell'essenza dell'esistere. Significa tentare di fissare il tempo una volta per tutte, ma il tempo, si sa, non si ferma nonostante i nostri più terribili sforzi. Spesso, per fortuna. 
La magia dell'infanzia sta nell'avere un tempo tutto per sé che va dispari rispetto al resto della numerazione, batte fuori e cade in levare, ed è sincronico solo ai propri giochi e pensieri che sono infiniti e smisurati e grandi, nel bene e nel male. 

Potreste dire, tranquillamente, senza essere tacciati di una qualche forma di squilibrio, di avere una qualche relazione con una persona fuori dal tempo? A patto che non siate in un teatro, un cinema, immersi nella contemplazione di un'opera d'arte, tra le pagine di un libro, nel bel mezzo di una tempesta musicale, ovvio... Credo proprio di no.
Cercare di capire il tempo di un bambino ha a che fare sicuramente con una sorta di salto quantico tra il qui ed ora e il tutto possibile.

Tuttavia a chi questo non bastasse, il solo scarto della convenzione temporale dell'esistenza, potrebbe venire in soccorso l'idea del “comune sentire”, della naturale predisposizione al “prendersi cura di”, ancora più forti quando si volgono dal grande al piccolo. Ma chi si è veramente preso cura di qualcuno sa che la moneta di scambio non è l'agognata conoscenza reciproca. Anzi forse proprio la questione della “cura di”, la sua giusta misura, è la prima causa delle più sofferte e distanti separazioni. 
Roba vecchia, insomma.
All'ultimo, credo che la certezza di questa conoscenza sia un inutile atto di superbia destinato alla sterilità, soprattutto quando questa sicurezza è declinata al plurale, cosa che viene così facile quando si tratta di bambini e di ragazzi... suvvia, non lo siamo stati tutti?

Sapere di non sapere, comunque, e molto prima di me e a ben vedere, non è un limite ma la consapevolezza di una condizione. E io, dal profondo di questa condizione, so di non conoscere i bambini nonostante il lavoro o proprio grazie al lavoro che svolgo. Insegno Pedagogia delle Narrazioni, trovassi un modo migliore per dire cosa faccio vi assicuro che lo farei, a partire proprio dalla Letteratura dell'infanzia. 
Nonostante lo studio e l'esperienza mi abbiano condotto su strade lontane e dagli incroci imprevedibili, alla fine mi sono trovata allo stesso punto - con le dovute differenze s'intende - in cui si trovò Wittgenstein dopo aver scritto centinaia di pagine di riflessioni sull'essere umano: “volevo definire i confini di un'isola. Quello che alla fine ho scoperto sono le frontiere dell'oceano”.
Lo stesso senso di infinito dello stato dell'infanzia. Di nuovo punto e a capo.

Lo stesso senso di infinito, che provo anche stasera mentre ripenso e scrivo queste parole, e ogni volta che rifletto sul mio lavoro, al di là della bellezza e del piacere che mi procura, sul suo scopo e se ciò che faccio, oltre alla mia vana gloria, ha qualche senso per i bambini che sono là fuori, tutti i bambini.
Cerco di mettere a fuoco una vista assoluta, di vederli nelle loro case, con genitori che non conosco, in situazioni che non conosco, mentre parlano lingue che non capisco e ricordano colori e sapori di terre che non ho visto, mentre si coricano sereni o spaventati a morte, mentre giocano, ridono o piangono in silenzio, perché i bambini piangono sempre in silenzio anche quando urlano a squarcia gola. 

Per chi sto lavorando dunque? Come posso raggiungere quei bambini che sempre e soli vivono sulle barricate? Quando arrivo a lambire il baratro di questo pensiero, cerco di tenere la mia visione salda come il timone di una barca alla deriva e all'orizzonte c'è sempre lui, Gavroche, il bambino di Victor Hugo, la “metafora d'infanzia” che mi accompagna dal nostro primo incontro, ormai da molti anni.
E il mio riferimento diventa lui, ancora per un giorno. 
Domani tornerò a cercarlo negli occhi dei bambini che incontrerò, là dove svoltano le loro vite, sapendo che non potrò mai riconoscerlo veramente. Ma potrò tentare di avvicinarli, quei bambini, di porgergli un fune salvifica, fosse anche per un istante, quello del racconto di una piccola storia che possa portarli lontano. 
Devo riuscire a farlo ogni giorno e per tutti i bambini. 

Perché io posso fare solo questo, e cerco di farlo al meglio ma poi non so se ci riesco... perché io, in fondo, sono solo una persona che quei bambini non li conosce.


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