venerdì 14 marzo 2014

«OGNI ALTRO SONO IO». ALBERTO MANZI SCRITTORE

Nella premessa al libro Alberto Manzi. L'avventura di un maestro (BUP, 2011), Roberto Farnè osserva che le cinque figure più significative (rivoluzionarie e innovative, aggiungerei) della cultura pedagogica italiana della seconda metà del Novecento sono curiosamente nate tutte tra il 1920 e il 1924: Gianni Rodari (1920), Mario Lodi (1922), Don Lorenzo Milani (1923), Danilo Dolci e Alberto Manzi (entrambi nel 1924).
A loro, aggiungerei senza indugio, Loris Malaguzzi (1920) e Bruno Ciari (1923).


Dopo aver visto l'interesse che hanno suscitato i post dedicati ad Alberto Manzi e a Mario Lodi, e risposto alle numerose mail in cui mi avete chiesto informazioni sulla loro vita,  pensiero, sulle loro opere, è evidente non solo che queste figure hanno superato il confine del secolo, ma che ancora oggi sono possono essere fonti di ispirazione per molte persone, molti giovani tra l'altro, che in diversi modi vogliono dedicarsi all'educazione dei bambini (o già lo fanno) e per tutti coloro che desiderano un confronto libero e aperto, onesto e leale, profondo ma sempre contemporaneo, sul discorso dell'infanzia.


«Due parole su che cosa è, o dovrebbe essere, l'educazione: "strumento" che sollecita lo sviluppo intellettuale dell'individuo alla conoscenza. Questo "strumento" è valido se mette in moto l'individuo, se lo spinge, cioè, a "fare", dato che ogni nostro concetto deriva dall'esperienza. Ma se abbiamo solo una conoscenza derivata dalla semplice informazione, diventiamo solo "ripetitori" di cose e non creatori noi stessi di cultura». Tratto da "Un giorno a Pitigliano, Ultima intervista ad Alberto Manzi" in Alberto Manzi. L'avventura di un maestro di Robertò Farnè, BUP, Bologna, 2011, p. 126.

L'idea e la messa in pratica dell'educazione come offerta del primo strumento di conoscenza per la formazione e la libera espressione dell'identità dell'individuo, qui definita con forza e in modo quasi lapidario da Manzi, è un visione pienamente condivisa anche da Rodari, Lodi, Don Milani e Dolci, figure che, per fortuna, possiamo ancora incontrare grazie all'ampia documentazione rimasta a testimonianza del loro lavoro, insieme alle numerosi pubblicazioni che hanno tracciato, a vario titolo, il loro percorso.


Quando ho scritto di Alberto Manzi, ho pensato che, tra tutti gli altri, forse e  paradossalmente, fosse al contempo la figura più nota al grande pubblico per via della trasmissione  "Non è mai troppo tardi" (Premio Unesco) e del romanzo per ragazzi Orzowei (il secondo libro italiano per ragazzi più tradotto al mondo dopo Pinocchio che ispirò anche la serie televisiva Orzowei, il figlio della savana andata in onda sul primo canale Rai nel 1977), ma di cui si conosceva meno la grandezza e la complessità che la sua figura di intellettuale ha rappresentato per qurant'anni, dal 1946 al 1997, nel nostro Paese.

Grandezza e complessità purtroppo in larga parte mancate dall'occasione della fiction che da poco gli ha dedicato Rai 1.


E, anche per questo, sono andata a riprendere in mano, a rivedere molti suoi materiali e scritti, scoprendo diverse cose che anch'io non conoscevo, ma anche a rileggere i suoi primi romanzi per ragazzi, Grogh, storia di un castoro, lo stesso Orzowei e Tupiriglio per capire se hanno mantenuta intatta la voce che catturò anche la mia generazione di lettori. Il fatto che abbia deciso di riproporveli contiene ovviamente la risposta.




Alberto Manzi,
Grogh, storia di un castoro,
illustrazioni di Sergio Toppi,
BUR Ragazzi, Milano, 2011

Grogh, storia di un castoro è l'esito di un lavoro di gruppo, poi elaborato in forma letteraria, che Manzi aveva portato avanti con fatica e soddisfazione nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma, dove, come raccontò, «nel 1946, appena tornato dalle armi, il ministro della Pubblica Istruzione mi ha sbattuto ad insegnare a una classe di 94 alunni [n.d.r. dagli 8 ai 18 anni]».


Dopo aver accettato e vinto la sfida, con un vero corpo a corpo, del leader dei ragazzi in carcere, non fu per Manzi facile iniziare una relazione educativa con loro.



«Un giorno in cui ero più disperato del solito - dice Alberto manzi - cominciai a raccontare, inventandomela, una storia di castori che cercavano la libertà: con mia grande meraviglia, i ragazzi cominciarono ad aguzzare le orecchie e a fare silenzio. Il giorno dopo mi chiesero il seguito. E così via per mesi interi. E io, con l'aiuto di un vecchio libro di zoologia che avevo trovato su una bancarella, continuai fino alla fine».  Tratto da Alberto Manzi. L'avventura di un maestro di Robertò Farnè, BUP, Bologna, 2011, p. 18.



Vedendo che i ragazzi, man mano che il racconto procedeva, si appassionavano alla storia di Grogh, Manzi propose loro di scriverla. Fu proprio la difficoltà di questa impresa, senza banchi e sedie,  senza il permesso di usare carta e matite, di innescare nei il desiderio di fare ciò che il maestro aveva in mente: un "giornalino" sul quale raccontare a puntate le storia di Grogh... e molto altro. Fu così che grazie al materiale di recupero che Manzi introduceva abusivamente in carcere, fogli e matite, i ragazzi cominciarono a scrivere e riscrivere per farne più copie la storia di Grogh. Di lì a poco, il direttore del carcere diede il permesso di far stampare il giornalino che con il nome di "La Tradotta" fu il primo ad essere realizzato in un carcere minorile.




«Fino a non molti anni fa vivevano in Europa i castori. Lungo le rive dei fiumi o sulle sponde dei laghi, s'alzavano a centinaia le loro casette, tremolanti sulle acque che le rispecchiavano.poi venne l'uomo. E la sua ingordigia, la sua sete di ricchezze fecero sì che il castoro fosse perseguitato, ucciso.E il castoro fuggì. Si nascose nelle rocce, nei pinti, sotto i fiumi.Oggi è molto difficile che noi lo vediamo.In altri luoghi egli vive ancora costruendo il suo villaggio e la sua diga: ma fino a quando?Questa mia non è altro che la storia dell'ultima colonia di castori europei. Il nipote di Lugh, lo scoiattolo, me la raccontò molti anni fa.Io la ripeto a voi in omaggio e in ringraziamento al libero popolo dei castori che molti ci insegnarono e molto ancora ci insegnano». Alberto Manzi, Roma 1949 (in apertura di Grogh, storia di un castoro)



Quando la storia di Grogh giunse alla fine coni ragazzi del "Gabelli", Manzi decise nell'estate del 1948 di riscriverla e di inviarla al "Premio Collodi" che vinse. Bompiani pubblicò il libro nel 1950 con le illustrazioni di Libico Maraja, la Rai ne fece un trasposizione radiofonica nel 1953 e Grogh conobbe un successo internazionale che lo portò a essere tradotto in 28 lingue.



«Quando apparve per la prima volta, nel 1949, Grogh doveva fare i conti con le regole,  non scritte ma evidentissime, della letteratura "animalista", ricca di infiniti contributi, da Fedro a Walt Disney, che, in secoli e secoli di apparizioni, avevano creato un pubblico che chiedeva loro saggezza divertimento, buoni esempi, stranezze, carnevalizzazione, informazione. Dopo le "sinfonie allegre" disneyane, così come dopo il Brutto Anatroccolo della Danimarca, o dopo le creature spassose del Vento tra i salici di Grahame, doveva risultare quasi impossibile, a un giovane scrittore, proporre credibilmente qualcosa di nuovo. Manzi ha vinto la scommessa utilizzando tutto il suo coraggio, tutta la sua virile e severa dolcezza che era nel suo carattere. [...] Grogh sa che deve lottare, che deve respingere ogni tipo di rassegnazione, che, soprattutto, occorre vincere la paura. Perché quel suo territorio, così autentico e così ostile, dove il fuoco consuma tutto, dove mentre si avvia la ricostruzione ti divorano i piccoli, cioè la speranza, è uno spazio anche bello anzi forse reso bello soprattutto dalla nitida asprezza che lo definisce. Caparbio, sapiente, creativo, libero, coraggioso, Grogh non promette mille e una notte di incanti e di delizie: ama la lotta, è profondamente dignitoso, in fondo dialoga davvero con il suo mondo perché non mette lo zucchero da nessuna parte. Al posto del Rosa bugiardino di tante storielle, c'è però la bellezza vera e pura di una natura autentica, piena di affascinanti misteri, di sfide e incessanti scommesse. Non c'è dubbio che nel libro si sentano le voci del pedagogista,  del biologo, del maestro, però Grogh supera lo stesso Salgari nella purezza del ritmo, nel fascino che è irresistibile perché di esso non sai darti ragione». Antonio Faeti, "Maestri e Castori" in Grogh, storia di un castoro, op. cit., 2011.


Da Grogh, storia di un castoro a Orzowei, il passo è segnato e breve.
E lo è per molti motivi, legati al contenuto e allo stile.



Alberto Manzi, Orzowei,
BUR Ragazzi, Milano, 2011


«Nel suo angolo d'Africa, Isa è un diverso, un emarginato, perché ha la pelle bianca. Lo chiamano Orzowei, "il trovato". Ha un duro compito davanti a sé: farsi accettare dagli altri e conquistarsi un posto nel mondo»


Pubblicato nel 1955 da Vallecchi con le illustrazioni di Silvano Campeggi, poi da Bompiani (1958), Orzowei si colloca a pieno titolo tra i classici contemporanei della letteratura per l'infanzia.



«Ignoravo l'esistenza di quel libro, ma era presente nella biblioteca della scuola. Quando l'insegnante ci portò a scegliere un volume da leggere, scorsi il nome di papà sulla costola. Avevo sei anni, leggevo già molto bene e sapevo che scriveva libri; i miei genitori mi avevano fatto leggere Tupiriglio e Testa Rossa, ma di Orzowei non mi avevano mai parlato. Incuriosita e un po' arrabbiata lo portai a casa. Mamma, quando mi ha vista salire in macchina con quel libro, non sapeva più dove sbattere la testa: "È un libro difficile. Non le devi leggere”, disse. Troppo tardi la mia curiosità era accesa. [...] Durante il ritorno a casa, lessi senza staccarmi dal libro; una volta arrivata a Pitigliano, chiesi anche a papà perché non mi avesse mai dato Orzowei. [...] Probabilmente neanche a lui faceva piacere che lo leggessi così presto, ma non cercò di togliermelo. Anzi, si prestava a rispondere alle mie domande». Giulia Manzi, Il tempo non basta mai. Alberto Manzi una vita tante vite, Add editore, 2014, p. 130.


Mohamed Isa è Orzowei, cioè "il trovato", «uno sciacallo d'uomo, un niente» come viene definito e trattato nel gruppo Swazi dove è stato trovato in una cesta appesa a un albero da Amunai il Ring-Kop, il Grande Guerriero, e cresciuto dalla vecchia Amebais. 
Isa è un bambino bianco, in quella savana africana, e il colore della sua pelle gli rende la durissima la vita nel villaggio. 

Giunto all'età di undici anni, Isa deve affrontare la grande prova per divenire guerriero. Armato solo di uno scudo e di una piccola lancia, inizia così il suo viaggio verso il l'età adulta e la possibilità di essere finalmente riconosciuto come degno di appartenere agli Swazi.

Un vero e proprio viaggio iniziatico, ma anche una fuga senza sosta, dove Isa imparerà a sopravvivere grazie alle sue abilità, dove farà incontri straordinari che gli mostreranno  quella "visione del mondo" in grado di modificare il corso di una vita.


«[...] C'è un maestro, naturalmente. È un'indimenticabile figura di maestro, questo Pao, capo del "piccolo popolo", misterioso sapiente alto meno di un bambino però colmo di antica sapienza, così ricca di spessore da far sì che lo avviciniamo alle figure dei saggi che la storia che meglio conosciamo ci ha fatto individuare. Filosofo e religioso della savana, Pao sa soprattutto trasmettere un metodo anche a noi lontani da lui nel tempo e nello spazio. Chi "conosce", sostiene Pao, sa amare e farsi amare. Gli "orzowei", gli esclusi e i reietti, i respinti, da tribù, da gruppi, da villaggi, da città, derivano i loro tormenti solo dall'ignoranza. E se ci si sente perseguitati, cacciati, offesi, ingiustamente sottoposti a tormenti e a sevizie, bisogna avere il grande coraggio che consente di domandare a se stessi: e io sto amando, io ho affetto per qualcuno, io vado davvero nella giusta direzione? È il coraggio che supera quello del guerriero ma deriva dall'attenzione del cacciatore. Il cacciatore sa osservare, decifrare, sa attendere, sa rispettare abitudini e caratteristiche; è sempre orientato ad accrescere l'unico patrimonio su cui può davvero contare: le sue conoscenze». Antonio Faeti, "La savana come aula" (2000), postfazione a Orzowei, op. cit., 2011.


Orzowei è un romanzo di formazione nella sua accezione più autentica. Scevra da  moralismo e buonismo, come nello stile di Alberto Manzi, qui, come anche in Grogh, storia di  un castoro,  l'avventura non ha connotati romantici e idealizzati, ma spesso è descritta nei sui dettagli più duri e feroci, senza sconti, seppure trasposta in una dimensione affabulatoria, ma si rivela nel farsi della vita dei due protagonisti, Grogh e Isa, nel contrasto radicale fra necessità e libertà che, se da una parte segna il destino dell'eroe tragico, dall'altra si pone come vero e proprio topos di una riflessione antica e attualissima, filosofica e pedagogica insieme, come scrive Roberto Farné:


«[...] Entrambi questi due romanzi hanno un finale tragico e salvifico insieme, dove l'agnizione dell'eroe è l'atto estremo. In Grogh e in Orzowei Manzi costruisce il finale come l'acme di un dramma cruento. Grogh muore sotto i colpi dei cacciatori, dopo essere riuscito ad affondare la loro barca permettendo al resto della colonia dei castori di sfuggire agli uomini e di fuggire verso la libertà; Isa viene ucciso nel mezzo di una furibonda battaglia tra Swazi, il popolo nel quale è cresciuto, e i bianchi con i quali ha scoperto la sua identità attraverso l'accoglienza e l'amicizia. Lui non capisce perché quei due popoli si stiano massacrando, si getta nella mischia per fermarli, viene colpito, da uno Swazi o da un bianco non si sa, lo riconoscono quando ormai è troppo tardi, e le armi tacciono.
La lettura di questi due romanzi non è all'insegna di una narrazione dove i contenuti si presentano ammorbiditi e con gli angoli smussati, secondo un modo di concepire la letteratura per l'infanzia come qualcosa che protegge i turbamenti, piuttosto che provocarli. [...] Si tratta di un mondo duro e crudele, eppure un mondo della vita dove l'uomo può sia costruire la propria identità e la propria formazione autentica, sia esercitare il proprio essere distruttivo». Roberto Farné, Alberto Manzi. L'avventura di un maestro, BUP, 2011, p. 30.


Nelle parole di Alberto Manzi:


«Dovrei parlare di me e questo mi mette in imbarazzo. Che dire? Che scrivo libri? Che insegno? Che faccio questo e quest’altro?… Ha forse un significato la mia storia? Forse lo hanno più i personaggi dei miei racconti: Grogh, Orzowei, Pedro, El loco… e loro parlano dai loro libri. E i ragazzi che li conoscono si chiedono perché muoiono. È vero, per lo più muoiono. Già muoiono, anche se la gente pensa che un buon libo per i giovani non può non deve finire con la morte del protagonista: quasi quasi è immorale. 
Prendiamo Orzowei: Isa muore perché se così non fosse ciascuno elimina “dentro di sé” il problema che Isa si era posto. Orzowei vince: il problema è risolto. Il lettore, soddisfatto, non ci pensa più. No, il problema non è risolto. Isa muore ammazzato nel tentativo di risolvere il problema, ma non ci riesce. Muore e passa il problema al lettore che, da questo malessere causato dal finale inaspettato, deve sentirsi pungolato a risolvere, perlomeno a tentare di risolvere, anche solo nel suo piccolo, il problema che Isa gli lascia: occorre che l’uomo torni – o cominci – a rispettare l’uomo. Questo il problema da risolvere. Se avessi lasciato vivere Isa, avrei dovuto dare una soluzione, al problema, e questo avrebbe reso il lettore soddisfatto. No, il problema non è risolto, occorre risolverlo e le soluzioni, o la soluzione, dobbiamo cercarle noi e applicarle.
Solo così Orzowei vive: se il suo problema diventa il nostro problema. 
Così è per Pedro, campesino che lotta per avere un po’ di giustizia, un po’ di istruzione, un po’ di rispetto… mica tutto il rispetto, tutta l’istruzione, tutta la giustizia: un po’, quanto basta per sentirsi un “po’” uomini in una società che sfrutta il misero, che ha posto il denaro obiettivo fondamentale e unico della vita, e per il denaro uccide, distrugge. 
Così è per Grogh, il castoro, che tenta di vivere libero con la sua tribù, ma che l’uomo annienta… Solo “el loco”, il pazzo, non viene ucciso. Ed è normale. Non si può distruggere la pazzia: se ciò avvenisse, l’umanità avrebbe distrutto poesia, fantasia, gioia, amore. [... potete leggere il seguito qui] Alberto Manzi, "Questo mi mette d'imbarazzo" (ineditoin Giulia Manzi, op. cit., pp. 207-210

Di tutto altro sapore, invece è la piccola avventura di Tupiriglio, pubblicato nel 1988 dalle Edizioni moderne di Padova, con le illustrazioni di Luigi Roveri e Nino Orlich.

Siamo in pieno fiabesco, e l'incontro di queste pagine sarà con un personaggio abituato a comparire e scomparire in luoghi e tempi diversi, sotto false spoglie o uno sciocco dichiarato, sulle sponde del mediterraneo o in aperta campagna, il suo nome sarà, di volta in volta, Giufà, lo stolto, il Briccone divino, Ivan, Luigione, Gurdulù, Bertoldo o Lazzarillo.

La fiaba era uno dei generi letterari prediletti da Alberto Manzi, un genere che è stato sempre protagonista della sua pedagogia della lettura. Egli stesso annota: "Nessuno che ami i bambini può considerare di privarli delle fiabe, di questa letteratura che forma l'esperienza dell'immaginazione, come del resto non può privare l'adulto dell'elemento fantastico nella pittura e nella letteratura... Potrà (il bambino) partecipare alle azioni fantastiche delle fiabe con la stessa libertà che sentiamo nei grandi quando ci abbandoniamo alla finzione del teatro e della letteratura" (Isaacs).

Nel racconto fiabesco di Tupiriglio, Alberto Manzi, decide di vestire lo sciocco con i panni di un bambino e lo fa entrare a pieno titolo tra i protagonisti dell'illustre compagnia più sopra citata.


Alberto Manzi, Tupiriglio,
con illustrazioni di Jeffrey Fisher,
BUR Ragazzi, Milano, 2011


Due parole per i signori GRANDI
«Tupiriglio è un... insieme di tutti i bambini sciocchi del mondo, come sono stati presentati dalle tradizioni popolari di ogni Paese. L'autore non ha fatto altro che ricostruire un personaggio "nuovo", avendo come traccia episodi "vecchi". Ha impastato diverse storie, le ha rielaborate e... così è nato Tupiriglio.Una storiella per far sorridere i vostri bambini e... una boccata di fantasia anche per voi, per aiutarvi a sorridere anche nei momenti neri. In fondo, il sacchetto con un pizzico di giudizio ce l'abbiamo tutti. Basta usarlo nel momento giusto!». Alberto Manzi (in apertura di Tupiriglio)


Il povero Tupiriglio non ne combina mai una giusta. 
Ha sempre la testa tra le nuvole, capisce fischi per fiaschi, prende i modi di dire e di intendersi alla lettera, combinando indicibili guai a catena, crede a tutto quello che gli dicono, mandando all'aria ogni sorta di affare, e, così, una marachella dopo l'altra, un disastro via l'altro, fa disperare sua madre che, dopo anni di speranze deluse, di quel figlio, proprio non sa cosa farsene.

«[...] Tupiriglio e sua madre sembra giochino a non capirsi, la lingua non li unisce, ma li separa, un ordine produce un disastro, un consiglio avvicina la catastrofe. La magia delle fiabe non migliora la vita, procura sempre nuovi scapaccioni, in un rapporto che è fondato su molte botte e su ben scarse carezze.
[...]
Il maestro Manzi ha creato un bambino che si muove tra cavoli luridi e tavoli magici, noi dobbiamo portare avanti il suo limpido discorso, la sua sorridente ammonizione.
Dietro la sua cattedra, accanto alla sua lavagna a scoprire i Tupiriglio di oggi.
Ci attendono molte sorprese». Antonio Faeti, postfazione a Tupiriglio, op. cit., 2011.

Grogh, storia di un castoro, Orzowei e Tupiriglio, sono soltanto tre delle opere narrative scritte da Alberto Manzi, un buon inizio per fare la conoscenza dello scrittore.

Il mio consiglio è quello di proseguire, almeno con la trilogia del Sudamerica: La luna nelle baracche (1974), El loco (1979) e il romanzo postumo E venne il sabato (2005) che trovate ora editi nei tipi della casa editrice Gorée.

Ma anche di regalarsi il tempo per andare al Centro Alberto Manzi di Bologna, dove è custodita gran parte della sua memoria, vi sorprenderete a fare la conoscenza di un uomo di domani.

Infine, un invito a venire a Mirandola in occasione della Rassegna "PENSARE" (11 - 13 aprile) dove, il 12 aprile alle ore 21.00, Giulia Manzi e Federico Taddia con Sonia Boni Manzi, intrecceranno le loro voci, i loro pensieri, le loro esperienze in occasione di "Le parole per educare a pensare: Alberto Manzi, un intellettuale rivoluzionario senza tempo", come è successo nella biografia appena uscita, e di cui vi ho parlato, Il tempo non basta mai. Alberto Manzi. Una vita tante vite appena pubblicata per mano di Giulia.



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